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venerdì 30 marzo 2018

Dalla risurrezione di Gesù è possibile un nuovo inizio per ciascuno


Pasqua di Risurrezione
Atti 10,34a.37-43 • Sal 117 • Colossesi 3,1-4 [1Corinzi 5,6-8] • Giovanni 20,1-9
(Visualizza i brani delle Letture)

Appunti per l'omelia

"Gesù è risorto, è vivo, è di nuovo con noi! La vittoria della morte su di lui è stata passeggera: questo il lieto annuncio che oggi ci è rivolto; annuncio che può correre il rischio di non sorprendere più, ma che pur sempre ha la forza di ridonare gioia e speranza a quanti stanno vivendo l'esperienza della sofferenza, delle difficoltà e dell'insuccesso. Il sepolcro vuoto e la testimonianza di Pietro sono i motivi proposti per rinnovare la nostra fede nel Vivente, perché il nostro comportamento sia segnato dalle prospettive aperte dalla risurrezione" (da Parola che si fa vita).
Nessun evangelista racconta il momento della risurrezione di Gesù, ma solo ciò che è successo dopo. Perché? Perché la risurrezione del Signore si vede dalla nostra vita e nella nostra vita. Ci chiediamo, allora: l'uomo d'oggi come può fare esperienza del Signore risorto? Potremmo rispondere: solo se i cristiani testimoniano con la loro vita che Gesù è vivo in mezzo a noi.
Ma possiamo credere nella risurrezione solo se usciamo dal nostro "stare fermi", se ci mettiamo in movimento, se usciamo da noi stessi…
Leggiamo dal vangelo di Giovanni (cf Gv 20,1-9) di Maria di Magdala che si reca al sepolcro…, che corre e va da Simon Pietro; di Pietro e Giovanni che si recano al sepolcro: "correvano tutti e due insieme…".
Maria "corre" non perché crede nella risurrezione, ma per affetto verso Gesù, per ungere il suo corpo… Anche i discepoli vanno al sepolcro a vedere cosa significhi quel "hanno portato via il Signore dal sepolcro".
Solo chi è disposto a recarsi al sepolcro, cioè a mettersi in movimento, a non ripiegarsi su se stesso, sulle proprie miserie, può vivere l'esperienza della fede. Non si tratta di capire tutto, non ci è chiesto di essere perfetti, ma di camminare, di fare un "passaggio": dalle lamentele alla ricerca del Signore. Vivere la fede significa smettere di lamentarsi, uscire da sé, camminare e cercare.
La risurrezione non è una magia! È vedere la vita in maniera nuova. Certo, di fronte alle difficoltà diciamo anche noi come le donne: chi ci sposterà la pietra del sepolcro? Però, appena arrivati, occorre entrare nel sepolcro, andando oltre le nostre paure. Vedere le cose e gli avvenimenti in maniera nuova.
Giovanni arriva, guarda, ma non entra. Pietro arriva ed entra. Allora anche l'altro discepolo entra, vede e crede.
Entrare nel sepolcro e vedere che non è più un luogo abitato dalla morte: sono le premesse per poter credere nella risurrezione.
La fede nella risurrezione non è una semplice fiducia nella vita, ma è credere che la vita nasce dalla morte, come il chicco di grano che caduto in terra muore e produce vita.
Si tratta di entrare nelle situazioni di morte. Entrare e avere in coraggio di guardare in faccia le nostre fragilità, il nostro peccato, le nostre sofferenze, il nostro dolore. Saper guardare oltre e vivere la risurrezione, amando come ha amato Gesù, soprattutto credendo al suo amore per di noi. Dio ci ama personalmente, così come siamo… Ha dato la vita "per me"!
Scrive l'evangelista Giovanni: "Siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli".
Guardare oltre: Dove? Cosa? Di fronte alle nostre debolezze, ai nostri fallimenti, al nostro dolore… saper scorgere il volto di Gesù, di Colui che ha preso su di sé tutto il nostro dolore. E riconoscerlo: "Sei Tu!". In uno slancio d'amore per lui, abbracciandolo, abbracciamo il nostro dolore che è una sua particolare presenza, dimostrando così il nostro amore per lui, mettendoci poi a fare la volontà di Dio del momento presente, amando il prossimo che ci passa accanto.
Questo è passare dalla morte alla vita. Questo è entrare nel sepolcro.
In questo nostro "camminare", in questo nostro "uscire da noi", Gesù risorto ci fa dono del suo Spirito, con i suoi doni: la pace, la gioia, la speranza per poter "vedere" con occhi nuovi, con gli occhi del Risorto, la nostra vita, gli avvenimenti che accadono nel mondo.
Il Signore risorto non ha risolto tutti i problemi, ma ha mostrato che è possibile un nuovo inizio: oggi, ora, a qualsiasi età… perché lui è il Vivente.
Allora possiamo ripetere, con cuore sincero, con le parole della Sequenza: "Sì, ne siamo certi: Cristo è davvero risorto. Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi".

(spunti da L'Amicizia presbiterale "Santi Basilio e Gregorio")

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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Egli doveva risorgere dai morti (Gv 20,9)
(vai al testo…)

Parola-sintesi proposta a suo tempo pubblicata:
 E vide e credette (Gv 20,8) - (05/04/2015)
(vai al testo…)
 È risorto! ( Mc 16,6) - (08/04/2012)
(vai al testo…)
 Noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute (At 10,39) - (11/04/2009)
(vai al post "Noi siamo testimoni")

Vedi anche i post Appunti per l'omelia:
  "Doveva" risorgere (04/04/2015)
  È risorto! (07/04/2012)

Commenti alla Parola:
  di L'Amicizia presbiterale "Santi Basilio e Gregorio" (VP 4.2018)
  di Luigi Vari (VP 3.2015)
  di Marinella Perroni (VP3.2012)
  di Claudio Arletti (VP 3.2009)
  di Enzo Bianchi
  di Lectio divina: Abbazia Santa Maria di Pulsano

mercoledì 28 marzo 2018

Partecipi della Sponsalità di Cristo


All'inizio di questo Triduo Santo vorrei riprendere alcuni pensieri dalle meditazioni che mons. Paolo Ricciardi, neo vescovo ausiliare di Roma (vedi il post "Servire, Rischiare, Scomparire") ha offerto al ritiro del clero della diocesi di Frascati, a cui ho partecipato. Filo conduttore il racconto evangelico delle Nozze di Cana, quale "luogo" privilegiato, in questo Triduo santo, per esprimere il rapporto sponsale di Cristo-Sposo con la Chiesa-Sposa e del sacerdote/diacono con la comunità che gli è stata affidata.

Giovedì Santo
La gioia del nostro essere sacerdoti/diaconi

Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c'era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli (Gv 2,1-2).

La nostra chiamata è una festa di nozze. Nello sfondo il racconto evangelico della lavanda dei piedi (cf Gv 13,1-15), Cristo-Sposo esprime, lavando, purificando nello Spirito i piedi della comunità/Sposa, la sua disponibilità al dono totale di sé fino alla fine. Egli congiunge a sé la comunità/sposa che il Padre gli ha dato, realizzando così "l'unica carne" nello Spirito.
Anche il sacerdote/diacono manifesta la propria sponsalità nella disponibilità al dono di sé, lavando i piedi come prova di amore e di perdono, determinato ad amare fino alla fine: "l'unica carne" come dono di sé.
Nella memoria del nostro "sì": felici di essere preti/diaconi così, in questo nostro stare con Gesù, nel nostro stare con la gente.


Venerdì Santo
La croce del nostro essere sacerdoti/diaconi

Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2,3-4).

Nel nostro ministero la croce è sempre presente, con il suo percorso secondo le varie stazioni della Via Crucis, assieme a Cristo-Sposo. «Non hanno vino!»: Cristo-Sposo sperimenta la lontananza dell'umanità/sposa… Gli apostoli dormono, fuggono…
Sola sta la Donna/Madre insieme ad alcune donne e al discepolo.
È il momento culmine della fecondità di Cristo e della Donna, una fecondità universale. Cristo trafitto genera la nuova, definitiva, Chiesa-Sposa nel Sangue e nello Spirito.
Anche il sacerdote/diacono sperimenta solitudini e abbandoni, ritardi e stanchezze, dimenticanze e trascuratezze, nella fuga e nel tradimento…
Ma nel dono di un amore "testardo" e tenace sperimenta che c'è qualcosa di più forte della morte dentro la morte. Riscopre così una nuova fecondità nei sacramenti come dono del sacerdozio/diaconato e non come funzioni da svolgere: un amore nuziale dove i partners si generano a vicenda, dove Cristo ha bisogno di noi e viceversa, in questo nostro stare con le persone, peccatori come tutti.


Sabato Santo
Il silenzio del nostro ministero

Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d'acqua le anfore»; e le riempirono fino all'orlo (Gv 2,5-7).

Siamo nel giorno santo del silenzio, "nell'attesa dell'evento", nell'attesa che quell'acqua (ma nessuno lo sa, forse la Madre ne intuisce la portata di ciò che il Figlio sta per compiere) diventi vino.
Cristo-Sposo nel "suo Silenzio", negli Inferi, va in cerca di Adamo ed Eva, la prima coppia umana, immagine della Sposa-umanità.
Anche il sacerdote/diacono sperimenta la sua notte. È la notte oscura in uno strano silenzio, nel disincanto, nelle crisi di rigetto. È una notte abitata dalla nostalgia e dal ricordo dell'amore della giovinezza. È la notte occupata dall'ansiosa attesa e nella ricerca affannata di Dio.
Nell'accettazione del nostro sabato santo, nell'attesa della Pasqua, crediamo che la "fatica" di riempire quelle anfore di seicento litri sarà alla fine ripagata. E nell'attesa facciamo visita a qualcuno che è nella notte oscura.



Notte di Pasqua
La pienezza nuziale del nostro essere sacerdoti/diaconi

Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto - il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l'acqua - chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all'inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora» (Gv 2,8-10).

È la notte nuziale della Chiesa, che si abbevera alle lettura dei testi liturgici della Veglia, benedicendo quel fuoco da cui prende luce il cero; quel cero che rende sacre le acque del fonte battesimale.
Cristo-Sposo, il Risorto, chiama ciascuno per nome, come ha fatto con Maria. In questo reciproco riconoscersi, in questo abbraccio, ritroviamo l'amore originario, nel nuovo giardino dell'Eden.
Anche il sacerdote/diacono si "ritrova" e si "ri-incontra". Anche noi, chiamati per nome, come il Risorto chiamiamo le persone a noi affidate per nome, nel loro vero nome, quello che Gesù stesso pronuncia. Allora, nel nuovo giardino dell'Eden, vediamo le ferite come spazio e amore rinnovato più grande.
È la notte luminosa, pienezza di Grazia per il giorno più bello che ci apre all'eternità.


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Vedi anche altri post a suo tempo pubblicati:
  Gesù abbandonato: mistero di Dolore e di Amore (12/04/2017)
  Il dolore e la sofferenza sono "solo" germogli di rinascita (23/03/2016)
  Pasqua, passaggio di Dio e passaggio dell'uomo (01/04/2015)
  Il mistero di quei tre giorni (18/04/2014)
  Il Servo di Jahwè (15/04/2014)
  Nati da quel Sangue (6/04/2012)
  Li amò sino alla fine (2/04/2010)
  Il nostro modello (30/03/2010)
  Nel deserto del mondo… (9/04/2009)
  Quel seme che muore per dar vita (6/04/2009)
  Il sepolcro vuoto (19/03/2008)


domenica 25 marzo 2018

Nel Figlio-Servo l'univa via alla speranza




Domenica della Palme. Il Re-Servo entra in Gerusalemme "spogliatosi" di tutto per regnare dalla Croce: follia d'amore di un Dio.
Nella sua kenosi è «l'unica via in cui si può riaprire per noi la porta della speranza», secondo le parole di Klaus Hemmerle, vescovo di Aachen (Germania).
Riporto di seguito, in questa Domenica di Passione, un suo pensiero scritto alla fine del 1993, poco prima della sua morte (23 gennaio 1994).

«In te Signore ho posto la mia speranza; non sarò confuso in eterno (Sal 71,1)».

«Dio, tu mi reggi forte così come sono.
Dio, tu reggi il mondo così com'è.
Dio, tu reggi forte questo prossimo così com'è.
Essere sorretti da Lui che è sceso nella "kenosi", che si è spogliato di tutto e ha preso la forma di servo: questa è l'unica via in cui si può riaprire per noi la porta della speranza.
Accogliere Lui che ci ha accolti per primo.
Farci portare da Lui.
Credere che siamo sorretti da Lui.
Questa è la cruna dell'ago attraverso cui riceviamo il filo della speranza che vi è infilato.
Questo Dio può darci davvero la speranza.
E qui la nostra Chiesa con tutti i suoi sbagli e le sue debolezze, con tutte le sue richieste e le sue sfide troppo grandi e troppo piccole, può essere una realtà straordinaria: una comunità di uomini che credono al fatto che sono stati accolti e sostenuti, una comunità di uomini che si sostengono reciprocamente, in cui ognuno regge l'altro».

Da "Klaus Hemmerle, innamorato della Parola di Dio" - Città Nuova Ed. pp 290-91

venerdì 23 marzo 2018

Acclamiamo la vittoria di Cristo sulla morte


Domenica delle Palme (B)
Isaia 50,4-7 • Salmo 21 • Filippesi 2,6-11 • Marco 14,1-15,47
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Appunti per l'omelia

Con la processione delle palme iniziano le celebrazioni della Settimana Santa. Non solo cronologicamente, ma anche e soprattutto "sacramentalmente". Tutto ciò che la Chiesa vive nei giorni santi - la passione e morte del Signore - viene introdotto simbolicamente con il significativo rito della processione.
Ma questa "introduzione" nel significato della Settimana Santa tramite la processione delle palme si verifica solo se si sa dare a questo rito il suo vero significato. Si tratta di "significare" l'entrata di Cristo nella Gerusalemme definitiva attraverso il trionfo della sua morte. La processione non ha, dunque, come fine principale quello di imitare l'evento storico avvenuto la domenica precedente la morte del Signore, ma di presentare un simbolo di ciò che in quell'avvenimento era "profetizzato", dando al popolo uno strumento per partecipare all'entrata escatologica di Gesù, attraverso il mistero pasquale, nel regno definitivo di Dio. Si deve vivere questa celebrazione «come una profezia della passione e del trionfo del Signore» (Caerimoniale episcoporum, n. 263), cioè, come un cammino che lo porta dalla croce fino alla gloria, cammino che, assieme al Signore, la Chiesa vuole percorrere con quella fede che proclama anche quando soffre e sembra fallire, perché riconosce e confessa la sua vittoria definitiva.
È in questo contesto, nell'acclamare e nel seguire il Crocifisso che è Re, che la processione delle palme riacquista la sua vera dimensione.
La Domenica delle Palme è fondamentalmente una domenica. Come tutte le domeniche dell'anno, celebra la risurrezione del Signore, la sua vittoria. Le caratteristiche di questa domenica possono aiutarci a scoprire il significato di ogni domenica cristiana. In particolare, la processione è come un'acclamazione per la vittoria del Signore, cosa che celebriamo anche ogni domenica. La narrazione della passione sottolinea il fatto che Cristo ottiene la vittoria attraverso la sofferenza e la morte. Le palme e i ramoscelli d'ulivo - segni popolari di vittoria - manifestano che la morte sulla croce è cammino di vittoria, e vittoria essa stessa, in quanto questa morte ha distrutto la morte. La celebrazione di oggi, dunque, riassume la dinamica del mistero pasquale di Cristo, che è anche il contenuto della nostra celebrazione domenicale.
La processione, pertanto, non ha solo il fine di ricordare un fatto storico passato, ma anche quello di fare una solenne professione di fede nella quale la croce e la morte di Cristo sono in definitiva una vittoria. Il colore rosso dei paramenti, in questo giorno, indica la morte del martire e la sua vittoria.
La benedizione dei rami, che è una parte secondaria rispetto alla processione, ha senso solo se legata alla processione. Per questo è proibito limitarsi alla benedizione dei rami, se non si fa la processione. In questo giorno, infatti, si vuole acclamare Cristo nel suo cammino pasquale. Benedicendo i rami non si vuole dare ai fedeli degli "oggetti benedetti" da tenere, ma acclamare con essi Cristo nella processione.
L'ingresso di Gesù a Gerusalemme è allo stesso tempo l'ingresso del Servo, che cammina verso la morte, e del Signore, che sarà glorificato.

(spunti da Lectio: Abbazia Santa Maria di Pulsano)

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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Davvero quest'uomo era Figlio di Dio! (Mc 15,39)
(vai al testo…)

Parola-sintesi proposta a suo tempo pubblicata:
 Davvero quest'uomo era Figlio di Dio! (Mc 15,39) - (29/03/2015)
(vai al testo…)
 L'anima mia è triste fino alla morte(Mc 14,34) ( Mc 14,34) - (01/04/2012)
(vai al testo…)
 Veramente quest'uomo era Figlio di Dio! (Mc 15,39) - (03/04/2009)
(vai al post "Amore e Dolore")

Vedi anche i post Appunti per l'omelia:
  La potenza dell'amore (28/03/2015)
  Nel grido del suo abbandono! (31/03/2012)

Commenti alla Parola:
  di L'Amicizia presbiterale "Santi Basilio e Gregorio" (VP 3.2018)
  di Luigi Vari (VP 3.2015)
  di Marinella Perroni (VP3.2012)
  di Claudio Arletti (VP 3.2009)
  di Enzo Bianchi
  di Lectio divina: Abbazia Santa Maria di Pulsano
  di Letture Patristiche della Domenica

(Illustrazione di Stefano Pachì)

domenica 18 marzo 2018

Quaresima 2018: perseveranti nella carità! [3]


Riprendo, in questo ultimo squarcio del cammino quaresimale, il messaggio di papa Francesco per questa Quaresima, guardando a quanto ci è stato offerto «assieme alla medicina, a volte amara, della verità», «il dolce rimedio della preghiera, dell'elemosina e del digiuno».
La preghiera, che permette «al nostro cuore di scoprire le menzogne segrete con le quali inganniamo noi stessi, per cercare finalmente la consolazione in Dio».
Il digiuno, che da un lato «toglie forza alla nostra violenza, ci disarma… e ci permette di sperimentare ciò che provano quanti mancano anche dello stretto necessario e conoscono i morsi quotidiani della fame»; dall'altro «esprime la condizione del nostro spirito, affamato e assetato della vita di Dio». «Il digiuno ci sveglia, ci fa più attenti a Dio e al prossimo, ridesta la volontà di obbedire a Dio che, solo, sazia la nostra fame». Il digiuno, che non può mai essere dissociato dalla preghiera e dalla carità.
L'elemosina, l'esercizio concreto della carità fraterna, ci libera quindi «dall'avidità e ci aiuta a scoprire che l'altro è mio fratello», perché «ciò che ho non è mai solo mio». Come aumenterebbe la credibilità delle nostre comunità cristiane, se la condivisione dei nostri beni fornisse «una testimonianza concreta della comunione che viviamo nella Chiesa»!
«Come vorrei - scrive papa Francesco - che anche nei nostri rapporti quotidiani, davanti a ogni fratello che ci chiede aiuto, noi pensassimo che lì c'è un appello della divina Provvidenza: ogni elemosina è un'occasione per prendere parte alla Provvidenza di Dio verso i suoi figli; e se Egli oggi si serve di me per aiutare un fratello, come domani non provvederà anche alle mie necessità, Lui che non si lascia vincere in generosità?». Così la carità, oltre che a sfamare chi è nella necessità, ci farebbe fare l'esperienza della comune figliolanza col Padre e la nostra comune fraternità in Gesù, perché tutti siamo avvolti dalla misericordia del Padre nel Figlio Gesù: non c'è carità senza misericordia.
Scrive san Giovanni di Dio nelle sue "Lettere": «Se guardassimo alla misericordia di Dio, non cesseremmo mai di fare del bene tutte le volte che se ne offre la possibilità. Infatti quando per amor di Dio, passiamo ai poveri ciò che egli stesso a dato a noi, ci promette il centuplo nella beatitudine eterna».
Ed ancora, più esplicitamente, san Gregorio Nazianzeno nei suoi "Discorsi": «Ascoltatemi: finché ci è dato di farlo, visitiamo Cristo, curiamo Cristo, alimentiamo Cristo, vestiamo Cristo, ospitiamo Cristo, onoriamo Cristo non solo con la nostra tavola, come alcuni hanno fatto, né solo con gli unguenti, come Maria Maddalena, né soltanto con il sepolcro, come Giuseppe d'Arimatea, né con le cose che servono alla sepoltura, come Nicodemo, che amava Cristo solo per metà, e neppure infine con l'oro, l'incenso e la mirra, come fecero, già prima di questi nominati, i Magi. Ma, poiché il Signore di tutti vuole la misericordia e non il sacrificio, e poiché la misericordia vale più di migliaia di grassi agnelli, offriamogli appunto questa nei poveri e in coloro che oggi sono avviliti fino a terra. Così quando ce ne andremo da qui, verremo accolti negli eterni tabernacoli, nella comunione con Cristo Signore».

venerdì 16 marzo 2018

Ciò che è donato produce vita


5a domenica di Quaresima (B)
Geremia 31,31-34 • Salmo 50 • Ebrei 5,7-9 • Giovanni 12,20-33
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Appunti per l'omelia

La V domenica di Quaresima, che nel Ciclo A riporta il racconto evangelico della risurrezione di Lazzaro dove Gesù si definisce "risurrezione e vita", nell'odierno Ciclo B fa da sfondo un analogo discorso: quello della vita che scaturisce dalla morte, dal seme che gettato in terra muore per produrre il suo frutto.
Per ognuno di noi la vita è il bene più prezioso. Ma quale vita? Quale la sorgente della Vita? Dove cercarla? Questo desiderio irrefrenabile, sincero, viene espresso, all'inizio del brano odierno (cf Gv 12,20-33), dalla richiesta espressa da alcuni Greci: «Vogliamo vedere Gesù».
È una richiesta semplice e diretta che ogni persona desidera esprime quando viene in contatto con le nostre comunità ecclesiali. Ma le risposte sono all'altezza di questo desiderio oppure siamo preoccupati di altro, tanto da far disamorare chi vorrebbe sinceramente incontrare Gesù?
Anche oggi, come quei greci al tempo di Gesù, molti sono quelli che, incontrando le nostre comunità non certo perfette, chiedono solo di vedere il volto di Gesù e di farne esperienza.
Anche oggi la via di questo incontro è tracciata senza ambiguità dalla risposta di Gesù: la vita che passa dalla morte. Nella contraddizione tra vita e morte è possibile fare esperienza di Lui, nonostante il nostro comune sentire che contrappone nettamente la vita alla morte. Per questo temiamo così tanto la morte, perché essa contraddice le aspirazioni e i desideri che spingono la nostra vita in avanti.
Gesù, con la metafora del grano che muore per portare frutto, mostra chiaramente che vita e morte non si oppongono, ma che l'una sia via all'altra. È il senso della Pasqua, di quella Pasqua, imminente, che Gesù sta per attraversare e che racchiude il senso completo della sua esistenza: una scelta di vita e di eternità, non un salto nel buio.
La metafora del chicco di grano non illumina solo la vita di Gesù, ma anche il nostro quotidiano, col suo egoismo che ci attanaglia, con la paura della morte. La vita ci sfugge ogni giorno di più, inesorabile, col passare del tempo. E noi cerchiamo di trattenerla, trattenendo le cose, accumulando cose inutili, esigendo sempre di più momenti per noi, coltivando in modo squilibrato il nostro benessere. In realtà abbiamo paura della morte. Siamo intimamente convinti che sia lei ad avere l'ultima parola e non abbia senso occuparsi del prossimo. Per cui "mangiamo e beviamo, perché domani moriremo", come ricordava Paolo ai corinzi. Ci attacchiamo alle cose perché sentiamo di staccarci dalla vita.
Gesù indica, invece, che non c'è modo di conservare la vita se non donandola. Come non c'è vero amore senza distacco da se stessi, senza "perdita". L'amore è una forma di morte e di rinuncia a sé. Eppure questa "morte" produce vita attorno, e molta. È la logica del chicco di grano. Tutto ciò che è trattenuto è perso: invecchia e marcisce senza scopo. Invece, tutto ciò che è donato nell'autenticità risorge e si moltiplica.
Solo così potremo "entrare" nella Pasqua ormai vicina e "vedere" Gesù nella sua gloria.

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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Se il chicco di grano caduto in terra muore, produce molto frutto (Gv 12,24)
(vai al testo…)

Parola-sintesi proposta a suo tempo pubblicata:
 Vogliamo vedere Gesù (Gv 12,21) - (22/03/2015)
(vai al testo…)
 Se uno mi vuol servire, mi segua (Gv 12,26) - (25/03/2012)
(vai al testo…)
 Se il chicco di grano caduto in terra muore, produce molto frutto (Gv 12,24) - (17/03/2009)
(vai al post "Se muori per amore, trovi la vita")

Vedi anche i post Appunti per l'omelia:
  Lui ci attira a sé (20/03/2015)
  Se il chicco di grano… (23/03/2012)

Commenti alla Parola:
  di L'Amicizia presbiterale "Santi Basilio e Gregorio" (VP 3.2018)
  di Luigi Vari (VP 3.2015)
  di Marinella Perroni (VP3.2012)
  di Claudio Arletti (VP 2.2009)
  di Enzo Bianchi
  di Lectio divina: Abbazia Santa Maria di Pulsano

mercoledì 14 marzo 2018

Dietro a Chiara…




14 marzo 2018 - 10° anniversario della scomparsa di Chiara Lubich.
Ho sempre davanti agli occhi e nel profondo del cuore quei momenti, quando assieme ad una folla di suoi "figli" le abbiamo dato l'ultimo saluto la sera prima della sua "partenza" per il Cielo. Lì, in quegli istanti, lunghissimi, carichi all'inverosimile di quella sacralità che ti prende l'anima nel più profondo, ho compreso la grandezza del dono ricevuto, l'aver potuto partecipare, al di là di me e dei miei limiti, di un carisma, unico, che ha dato senso a tutta la mia vita, che ha illuminato di rara luce il mio essere cristiano, il mio essere nella Chiesa e per la Chiesa, il mio essere diacono, al servizio degli ultimi e delle persone che soffrono.

Questa meditazione di Chiara mi ricorda ogni giorno il mio genuino essere per gli altri.

Signore, dammi tutti i soli…

Ho sentito nel mio cuore la passione che invade il Tuo
per tutto l'abbandono in cui nuota il mondo intero.
Amo ogni essere ammalato e solo:
anche le piante sofferenti mi fanno pena…,
anche gli animali soli.
Chi consola il loro pianto?
Chi compiange la loro morte lenta?
E chi stringe al proprio cuore il cuore disperato?
Dammi, mio Dio, d'essere nel mondo il sacramento tangibile
del tuo Amore, del tuo essere Amore:
d'esser le braccia tue che stringono a sé
e consumano in amore tutta la solitudine del mondo.


Vedi anche i post:
Grazie, Chiara! (14/03/2017)
Grazie, Chiara! (15/03/2008)

venerdì 9 marzo 2018

La luce è venuta nel mondo!


4a domenica di Quaresima (B)
2Cronache 36,14-16.19-23 • Salmo 136 • Efesini 2,4-10 • Giovanni 3,14-2
(Visualizza i brani delle Letture)

Appunti per l'omelia

Questa IV domenica di Quaresima, che nel Ciclo A delle letture riporta il brano evangelico del cieco nato, è caratterizzata da tema della luce: «La luce è venuta nel mondo». L'esperienza di fede, infatti, è descritta dal brano evangelico proposto per il Ciclo B - che narra dell'incontro di Gesù con Nicodemo - (cf Gv 3,14-21), come un "venire alla luce", un rinascere. Nell'esperienza di Dio, tuttavia, il buio non scompare del tutto. Anzi, più forte è la luce, tanto più netta è l'ombra che essa genera, laddove un corpo vi fa schermo. Ed è proprio dall'esperienza di fede che percepiamo le ombre della nostra vita: atteggiamenti, pensieri, azioni con cui abbiamo quietamente convissuto e che ora, di fronte al raggio di questa "luce", ci appaiono inaccettabili e inconciliabili con la sequela evangelica.
Quante volte abbiamo pensato moralisticamente che la nostra fede o la pratica frequente dei sacramenti avrebbero cancellato queste ombre, anche le più tenaci e resistenti della nostra vita! Ma non è stato così. Continuiamo a convivere con miserie e fragilità piccole o grandi. Non siamo diventati perfetti e non lo diventeremo mai.
Tuttavia, il peso dei nostri limiti fa riaffiorare la domanda di sempre: siamo degni dell'amore di Dio? Crediamo all'amore di Dio, nonostante noi? Crediamo più al "giudizio" o alla "condanna", piuttosto che all'essere accolti, così come siamo, dall'amore del Padre?
Siamo tentati spesso, in questa esperienza dei nostri limiti, a presentarci, anche davanti a Dio, con un atteggiamento che voglia nascondere le nostre nudità… Per questo, alle volte, amiamo "più le tenebre che la luce". Stiamo nell'ombra davanti a Dio, come davanti ai nostri fratelli. Non siamo trasparenti proprio a causa dell'interna tensione che ci abita, non riuscendo ad aprile la nostra tenebra a Dio, in pienezza di verità. È proprio in queste circostanze che sentiamo la voce dell'antico serpente che insinua in noi il volto di un Dio giudice e rivale della nostra felicità. Ed è allora che la nostra salvezza sta nell'alzare il nostro sguardo, nel levare i nostri occhi verso "il Figlio dell'uomo innalzato". In questo "innalzamento" tutte le genti riconosceranno il vero volto di Dio. Come il serpente nel deserto, il crocifisso è per noi un'immagine di dolore e di morte. Ma sappiamo che la sua bruttura è la nostra bruttura. Sono le nostre tenebre che sfigurano il volto di Cristo. Tuttavia non siamo davanti al Santo che giudica e condanna il peccatore. Siamo piuttosto davanti al Santo che si è fatto peccato e maledizione per restituirci la nostra bellezza perduta.
Mai siamo davanti alla nostra tenebra nella solitudine così da poterci abbandonare alla disperazione. «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».
Solo nella nostra umiltà possiamo deporre tutto il nostro essere ai piedi della croce e sperimentare che quel peso schiacciante della nostra infedeltà viene sollevato da Cristo al posto nostro. Questo è il senso dell'innalzamento del Figlio dell'Uomo. Capiremo con tutto noi stessi che in quel «come Mosè innalzò il serpente così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbai la vita eterna», che è davvero necessario che sia vinta la nostra paura di Dio e possiamo veramente "venire alla luce".

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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Dio ha mandato il Figlio perché il mondo sia salvato per mezzo di lui (Gv 2,11)
(vai al testo…)

Parola-sintesi proposta a suo tempo pubblicata:
 Chi fa la verità viene verso la luce (Gv 3,21) - (15/03/2015)
(vai al testo…)
 Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio (Gv 3,16) - (18/03/2012)
(vai al testo…)
 Bisogna che il Figlio dell'uomo sia innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia vita eterna (Gv 3,14-15) (Gv 3,14-15) - (20/03/2009)
(vai al post "Il Crocifisso-Risorto, mistero di Dio")

Vedi anche i post Appunti per l'omelia:
  Il "Giudizio" di Dio (13/03/2015)
  La gioia di sentirsi ed essere amati (16/03/2012)

Commenti alla Parola:
  di L'Amicizia presbiterale "Santi Basilio e Gregorio" (VP 3.2018)
  di Luigi Vari (VP 2.2015)
  di Marinella Perroni (VP 3.2012)
  di Claudio Arletti (VP 2.2009)
  di Enzo Bianchi
  di Lectio divina: Abbazia Santa Maria di Pulsano

(Illustrazione di Stefano Pachì)

mercoledì 7 marzo 2018

Quaresima 2018: perseveranti nella carità! [2]


Riprendo il messaggio di papa Francesco per questa Quaresima per rimettermi in sintonia con lui e «vivere con gioia e verità in questo tempo di grazia».

«Per il dilagare dell'iniquità, si raffredderà l'amore di molti» (Mt 24,12).
«Come si raffredda in noi la carità? – si chiede il Papa – Quali sono i segni che indicano che in noi l'amore rischia di spegnersi?».
Ed elenca questi segni dove il nostro cuore entra in quella spirale che non dà ossigeno, ma lo ammorba di quell'aria che è anticipo di morte spirituale, di asfissia: «l'avidità per il denaro», «il rifiuto di Dio» con il conseguente rifiuto «di trovare consolazione in Lui, preferendo la nostra desolazione al conforto della sua Parola e dei Sacramenti».
Quando il cuore non pulsa più d'amore, tutto «si tramuta in violenza», soprattutto verso coloro che minacciano le «nostre certezze»: «il bambino non ancora nato, l'anziano malato, l'ospite di passaggio, lo straniero, ma anche il prossimo che non corrisponde alle nostre attese».
«Anche il creato è testimone di questo raffreddamento della carità: la terra avvelenata…, i mari inquinati…, i cieli solcati da macchine che fanno piovere strumenti di morte».
Le persone con un cuore freddo e arido rivolgono ogni attenzione verso se stessi in una spirale che porta alla paralisi e alla morte. Una desolazione, assenza di speranza, che invade non solo le persone, ma le stesse comunità.
È esperienza quotidiana il constatare se nelle nostre comunità regna un clima di pace, di accoglienza, di gioia, di fraternità, oppure se continuiamo a camminare "per inerzia", con programmi standard, che non si possono modificare, pena l'immobilismo che blocca la spinta ad "uscire" dal nostro guscio autoreferenziale ed andare "oltre" e riempire di gioia e di speranza ogni nostro incontro.
E papa Francesco enumera questi sintomi che bloccano lo slancio delle nostre comunità: «l'accidia egoista, il pessimismo sterile, la tentazione di isolarsi e di impegnarsi in continue guerre fratricide, la mentalità mondana che induce ad occuparsi solo di ciò che è apparente, riducendo in tal modo l'ardore missionario».

«Chi non ama – dice il noto canto – resta sempre nella notte e dall'ombra della morte non risorge, ma se noi camminiamo nell'amore saremo veri figli della luce!».


martedì 6 marzo 2018

Quaresima 2018: perseveranti nella carità! [1]


Ho ripreso il messaggio di papa Francesco per questa Quaresima per rimettermi in sintonia con lui e «vivere con gioia e verità in questo tempo di grazia».
Fa riflettere la Parola sintesi: «Per il dilagare dell'iniquità, si raffredderà l'amore di molti» (Mt 24,12).
Non c'è dubbio ed è sotto gli occhi di tutti questo «dilagare dell'iniquità»! Se da un lato ci porta in prima fila nel "combattimento", dall'altro si assiste ad un "raffreddamento" in molti della speranza e quindi della capacità di dare testimonianza attraverso la carità. Si raffredda l'amore e quindi la vita!
Qui sta la "debolezza" delle nostre comunità cristiane che, pur nella buona volontà di tanti, non sono in grado di incidere nel tessuto sociale.
Un cristianesimo debole? Vissuto "come si può"?
Tutti siamo, più o meno, contagiati o condizionati. Anch'io non posso sentirmi escluso da questa situazione. E mi chiedo: sono per le persone che mi stanno accanto e per quelle che mi sono affidate riferimento e testimonianza di serenità, di luce, di speranza… di gioia?
Si sa, «di fronte ad eventi dolorosi» è facile, in questa "debolezza" diffusa, dare ascolto a quei «falsi profeti» che ingannano molti, «tanto da minacciare di spegnere nei cuori la carità che è il centro di tutto il Vangelo».
Questi falsi profeti sono come «incantatori di serpenti», che «approfittano delle emozioni umane per rendere schiave le persone e portarle dove vogliono loro».
In questa nostra "società liquida" è facile lasciarci abbindolare, non avendo punti di riferimento certi perché condizionati dalla "corrente" delle opinioni più varie e strane. Condizionati, tra l'altro, da una sfiducia diffusa anche verso persone e istituzioni che credevamo "sicure" e "credibili".
Siamo, come cristiani, messi alla prova. Gesù ci aveva ricordato che avremmo avuto difficoltà, sofferenza, persecuzioni… e che gli stessi "nostri di casa" sarebbero diventati nostri "avversari", invitandoci alla "perseveranza" per rimanere saldi ed essere salvati.
«Quanti uomini e donne vivono come incantati dall'illusione del denaro… Quanti vivono pensando di badare a se stesi e cadono preda della solitudine!».
«Ognuno - continua il Papa – è chiamato a discernere nel suo cuore ed esaminare se è minacciato dalle menzogne di questi falsi profeti». Ed «imparare a non fermarsi al livello immediato, superficiale, ma riconoscere ciò che lascia dentro di noi un'impronta buona e più durevole, perché viene da Dio».
Ecco allora: guardare a Lui ed essere certi della sua fedeltà!

venerdì 2 marzo 2018

La nostra vita "unificata" in Gesù, vero santuario del Padre


3a domenica di Quaresima (B)
Esodo 20,1-17 • Salmo 18 • 1Corinzi 1,22-25 • Giovanni 2,13-25
(Visualizza i brani delle Letture)

Appunti per l'omelia

La terza domenica di Quaresima è caratterizzata, nel ciclo A dal racconto evangelico dell'incontro di Gesù con la Samaritana, dove le viene rivelato il vero culto da dare a Dio: non più al tempio di Gerusalemme né sul monte Garzim, ma nello Spirito Santo e nella Verità che è Gesù Cristo (cf Gv 4,23-24); mentre nel brano odierno (ciclo B) l'attenzione viene focalizzata sull'episodio della cacciata dei venditori dal tempio e della conseguente presentazione che Gesù fa di se stesso, quale nuovo tempio.

In questo contesto, vediamo messi a confronto tre templi, tre luoghi di culto che si intersecano tra di loro: il tempio di Gerusalemme, il corpo di Gesù, il cuore dell'uomo. Tutto inizia nel tempio, per compiersi nella Pasqua di Gesù, al fine di rinnovare il cuore dell'uomo.
Che intenzione aveva Gesù quando scacciò i mercanti del tempio? Aveva forse in mente di riformare il culto della tradizione mosaica? Certamente si trattava di un gesto di rottura. La novità delle sue parole e la libertà delle sue parole operavano una taglio netto con la tradizione. Ma la cacciata dei mercanti dal tempio non va confusa con una reazione eccessiva dettata dallo sdegno del momento, anche perché la presenza dei venditori era perfettamente legittima. Il gesto di Gesù si inserisce nei gesti provocatori che anche i profeti avevano compiuto. La reazione dei giudei presenti non è un invito alla moderazione, ma piuttosto alla richiesta di un segno che giustifichi la sua pretesa profetica, il suo essere profeta che lancia questa provocazione.
E Gesù rimanda ad un altro tempio, che si riedificherà in tre giorni, al suo corpo.
È il riferimento al corpo di Gesù, vero santuario del Padre, che ci fa cogliere il vero significato del tempio, dove tutto parla di consacrazione. Tutto in Gesù è dato e sarà dato per il compimento di salvezza nella missione ricevuta dal Padre.
In realtà, non vi è nulla in un edificio adibito al culto che sia fuori della glorificazione di Dio e non sia orientato a questo scopo. Ma Gesù, di fronte all'attività dei venditori, denuncia una situazione in cui il mezzo è sganciato dal fine, come qualcosa che ha in sé la propria sussistenza. Per questo la Casa del Padre è diventata un luogo di mercato. Il mezzo è diventato il fine!

Possiamo trasporre questa situazione alla nostra consacrazione battesimale. Nella nostra vita ci sono attività non direttamente collegabili ad un rito cultuale, quale la vita familiare e professionale. Anzi la maggior parte delle nostre azioni non hanno nulla a che fare con una pratica religiosa. Eppure, in virtù del battesimo noi siamo diventarti tempio dello Spirito Santo. In questa nuova nostra condizione non è più possibile che lavoro o famiglia divengano realtà completamente autonome, sganciate dalla nostra fede o senza un riferimento ad essa. I cristiani non lavorano né sviluppano le proprie capacità professionali nel nome di un uomo, né costruiscono una famiglia che divenga antagonista all'obbedienza dovuta al vangelo.
La fede è forse divenuta come l'abito domenicale da indossare solo nel giorno di festa per poi riporlo sino alla festività successiva? Questo atteggiamento, che caratterizza purtroppo la situazione attuale delle nostre comunità cristiane, ha generato una vara e propria schizofrenia accompagnata da prevedibili scandali e contraddizioni, con fatti che sono in contrasto con la nostra consacrazione battesimale.

Il corpo di Gesù sta allora di fronte al tempio di Gerusalemme come denuncia di una situazione lontana dalla Pasqua, ormai alle porte, quale evento salvifico che realizza in pieno la nostra realtà di "popolo sacerdotale" e di "nazione santa". Il tempio di Gerusalemme riflette invece la situazione del cuore umano, diviso ed incapace di unificare se stesso nell'adorazione del vero Dio.
Guardare allora alla nostra vita ed alla vita delle nostre comunità come al corpo di Cristo è continuare l'impegno quaresimale per poter celebrare in pienezza la risurrezione dai morti del Figlio di Dio.

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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere (Gv 2,9)
(vai al testo…)

Parola-sintesi proposta a suo tempo pubblicata:
 Egli parlava del tempio del suo corpo (Gv 2,21) - (08/03/2015)
(vai al testo…)
 Molti credettero nel suo nome (Gv 2,23) - (11/03/2012)
(vai al testo…)
 Noi predichiamo Cristo crocifisso, potenza e sapienza di Dio (1Cor 1,23-24) - (13/03/2009)
(vai al post "Il Crocifisso, mistero d'amore")

Vedi anche i post Appunti per l'omelia:
  Gesù, nuovo "tempio" per l'uomo di oggi (7/03/2015)
  Il nuovo Tempio (9/03/2012)

Commenti alla Parola:
  di L'Amicizia presbiterale "Santi Basilio e Gregorio" (VP 2.2018)
  di Luigi Vari (VP 2.2015)
  di Marinella Perroni (VP 2.2012)
  di Claudio Arletti (VP 2.2009)
  di Enzo Bianchi

(Illustrazione di Stefano Pachì)

giovedì 1 marzo 2018

Una guida sicura nel nostro cammino: Gesù, la Via


Parola di vita – Marzo 2018
(Clicca qui per il Video del Commento)

«Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri» (Sal 25,4).

Il re e profeta Davide, autore di questo salmo, è oppresso dall'angoscia e dalla povertà e si sente in pericolo di fronte ai suoi nemici. Vorrebbe trovare una strada per uscire da questa situazione dolorosa, ma sperimenta la sua impotenza. Allora alza gli occhi verso il Dio di Israele, che da sempre custodisce il suo popolo e lo invoca con speranza perché venga in suo aiuto. La Parola di vita di questo mese sottolinea, in particolare, la sua richiesta di conoscere le vie e i sentieri del Signore, come luce per le proprie scelte, soprattutto nei momenti difficili.

«Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri».

Anche a noi capita di dover fare scelte decisive per la nostra vita, che impegnano la coscienza e tutta la nostra persona; a volte abbiamo tante possibili strade davanti a noi e siamo incerti su quale sia la migliore, altre volte ci sembra di non averne nessuna …. Cercare una via per andare avanti è profondamente umano, e a volte abbiamo bisogno di chiedere aiuto a chi consideriamo amico. La fede cristiana ci fa entrare nell'amicizia con Dio: Egli è il Padre che ci conosce intimamente e ama accompagnarci nel nostro cammino. Egli ogni giorno invita ciascuno di noi ad entrare liberamente in un'avventura, avendo come bussola l'amore disinteressato verso Lui e tutti i suoi figli. Le strade, i sentieri sono anche occasioni di incontro con altri viaggiatori, di scoperta di nuove mete da condividere. Il cristiano non è mai una persona isolata, ma fa parte di un popolo in cammino verso il disegno di Dio Padre sull'umanità, che Gesù ci ha rivelato, con le sue parole e tutta la sua vita: la fraternità universale, la civiltà dell'amore.

«Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri».

E le vie del Signore sono audaci, a volte sembrano al limite delle nostre possibilità, come i ponti di corda gettati tra le pareti delle rocce. Esse sfidano abitudini egoistiche, pregiudizi, falsa umiltà e ci aprono orizzonti di dialogo, incontro, impegno per il bene comune. Soprattutto ci richiedono un amore sempre nuovo, stabilito sulla roccia dell'amore e della fedeltà di Dio per noi, capace di arrivare fino al perdono. Esso è la condizione irrinunciabile per costruire relazioni di giustizia e di pace tra le persone e tra i popoli. Anche la testimonianza di un gesto d'amore semplice, ma autentico, può illuminare la strada nel cuore degli altri. In Nigeria, durante un incontro in cui giovani e adulti potevano condividere le esperienze personali di amore evangelico, Maya, una bambina, ha raccontato: "Ieri, mentre stavamo giocando, un bambino mi ha spinta e sono caduta. Mi ha detto "scusa" e l'ho perdonato". Queste parole hanno aperto il cuore di un uomo il cui padre era stato ucciso da Boko Haram: "Ho guardato Maya. Se lei, che è una bambina, può perdonare significa che anche io posso fare altrettanto".

«Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri».

Se vogliamo affidarci ad una guida sicura nel nostro cammino, ricordiamo che proprio Gesù ha detto di sé: "Io sono la Via…" (Gv 14,6). Rivolgendosi ai giovani riuniti a Santiago di Compostela, per la Giornata mondiale della gioventù del 1989, Chiara Lubich li ha incoraggiati con queste parole: "[…] Definendo se stesso come "la Via", ha voluto dire che dobbiamo camminare come ha camminato lui […]. Si può dire che la via percorsa da Gesù ha un nome: amore. […] L'amore che Gesù ha vissuto ed ha portato è un amore speciale ed unico. […] E' l'amore stesso che arde in Dio. […] Ma amare chi? Amare Dio certamente è il primo nostro dovere. Poi: amare ogni prossimo. […] Dal mattino alla sera, ogni rapporto con gli altri va vissuto con quest'amore. In casa, all'università, al lavoro, nei campi sportivi, in vacanza, in chiesa, per strada, dobbiamo cogliere le varie occasioni per amare gli altri come noi stessi, vedendo Gesù in loro, non trascurando nessuno, anzi amando tutti per primi. […] Entrare più profondamente possibile nell'animo dell'altro; capire veramente i suoi problemi, le sue esigenze, i suoi guai e anche le sue gioie, per poter condividere con lui ogni cosa. […] Farsi, in certo modo, l'altro. Come Gesù che, Dio, si è fatto, per amore, uomo come noi. Così il prossimo si sente compreso e sollevato, perché c'è chi porta con lui i suoi pesi, le sue pene e condivide le sue piccole felicità. "Vivere l'altro", "vivere gli altri": questo è un grande ideale, questo è superlativo […]".

Letizia Magri

Fonte: Città Nuova n. 2/Febbraio 2018