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venerdì 31 ottobre 2014

"Io sono la risurrezione e la vita"


Commemorazione dei Defunti
[31a domenica del T.O. (A) - (2 nov. 2014)]

Appunti per l'omelia

«Questa è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (Gv 6,40).
Nella Commemorazione dei fedeli defunti vorrei soffermarmi sulla promessa di Gesù: la nostra risurrezione.
Gesù in occasione della morte di Lazzaro, nel colloquio con la sorella Marta, aveva affermato: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv 11,25).
Chiara Lubich, a questo proposito scrive, quasi un colloquio personale con chi legge: «Gesù, [nel colloquio con Marta] vuol fare intendere chi egli è per l'uomo. Gesù possiede il bene più prezioso che si possa desiderare: la Vita, quella Vita che non muore.
Se hai letto il Vangelo di Giovanni, avrai trovato che Gesù ha pure detto: "Come il Padre ha la Vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la Vita in se stesso" (Gv 5,26).
E poiché Gesù ha la Vita, la può comunicare.
Anche Marta crede alla risurrezione finale: "So che risusciterà nell'ultimo giorno" (Gv 11,23), [parlando del fratello Lazzaro].
Ma Gesù, con la sua affermazione meravigliosa: "Io sono la risurrezione e la vita", le fa capire che non deve attendere il futuro per sperare nella risurrezione dei morti. Già adesso, nel presente, egli è per tutti i credenti, quella Vita divina, ineffabile, eterna, che non morirà mai.
Se Gesù è in loro, se egli è in te, non morirai. Questa Vita nel credente è della stessa natura di Gesù risorto e quindi ben diversa dalla condizione umana in cui si trova.
E questa straordinaria Vita, che già esiste anche in te, si manifesterà pienamente nell'ultimo giorno, quando parteciperai, con tutto il tuo essere, alla risurrezione futura.
Certamente Gesù con queste parole non nega che ci sia la morte fisica. Ma essa non implicherà la perdita della Vita vera. La morte resterà per te, come per tutti, un'esperienza unica, fortissima e forse temuta. Ma non significherà più il non senso di un'esistenza, non sarà più l'assurdo, il fallimento della vita, la tua fine. La morte, per te, non sarà più realmente una morte.
E quando è nata in te questa Vita che non muore?
Nel battesimo. Lì, pur nella tua condizione di persona che deve morire, hai avuto da Cristo la Vita immortale. Nel battesimo, infatti, hai ricevuto lo Spirito Santo che è colui che ha risuscitato Gesù.
E condizione per ricevere questo sacramento è la tua fede, che hai dichiarato attraverso i tuoi padrini. Gesù, infatti, nell'episodio della risurrezione di Lazzaro, parlando a Marta, ha precisato: "Chi crede in me, anche se muore vivrà" (…) "Credi tu questo?" (Gv 11,26).
"Credere", qui, è un fatto molto serio, molto importante: non implica solo accettare le verità annunciate da Gesù, ma aderirvi con tutto l'essere.
Per avere questa vita, devi dunque dire il tuo sì a Cristo. E ciò significa adesione alle sue parole, ai suoi comandi: viverli. Gesù lo ha confermato: "Se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte" (Gv 8,51). E gli insegnamenti di Gesù sono riassunti nell'amore.
Non puoi, quindi, non essere felice: in te è la Vita!».

(Chiara Lubich, link al testo)

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Vedi anche:

Commenti alla Parola:
  di Gianni Cavagnoli (VP 2014)
  di Enzo Bianchi


giovedì 30 ottobre 2014

La santità è innamorata dell'oggi


Solennità di Tutti Santi

Appunti per l'omelia

Lungo tutta la Scrittura, la santità è, per eccellenza, attributo di Dio. Proprio perché Dio non è un idolo, un dio con la lettera minuscola, fabbricato dalle mani dell'uomo, ma l'unico vero Dio, egli è "santo", cioè separato dal mondo, è il "totalmente altro". Tuttavia, il Signore del cielo e della terra ha comunicato la sua santità a un popolo, Israele, invitandolo a parteciparvi: «Siate santi perché io sono santo» (Lv 11,44; 19,2; 20,7). L'uomo può imitare l'Altissimo, deve assomigliargli. Potremmo dire, riassumendo la solennità odierna: la perfezione cristiana non coincide semplicemente con la pienezza dell'umanità, ma con la perfezione stessa di Dio. Facendo eco al Levitico, Gesù dirà poco dopo il brano delle Beatitudini: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48).
L'evangelista Giovanni traduce la realizzata somiglianza tra Dio e l'uomo in termini di purezza e purificazione. L'uomo può purificare se stesso come anche Dio è puro (cf 1Gv 3,1-3). Ma l'apostolo Giovanni ci suggerisce anche quale sia il motore che può innescare la purificazione del credente. Il motore è la speranza. Ma come può la speranza "purificare" l'uomo? Ciò diventa comprensibile se pensiamo al fatto che il peccato è sempre sbocco di un cuore rassegnato. Il peccato è la condotta remissiva di coloro che, delusi da Dio e dalla vita, ritengono che non sia possibile campare se non al piccolo trotto o al piccolo cabotaggio. Se la santità è slancio verso Cristo, tensione ai valori più alti, entusiasmo per il bene, il peccato ha sempre a che fare con il disincanto di chi, dalle vette del bene, scende fino agli avvallamenti del compromesso.
Infatti, se non crediamo alla risurrezione di Cristo, chi ci dice che pure noi risorgeremo come lui, se facciamo della nostra vita un atto di amore? Accettiamo per fede il mistero del Figlio di Dio, ma attendiamo nella speranza che si compia anche per noi.
Se invece non attendiamo più nulla da Dio e trasciniamo il nostro essere cristiani, non possiamo che vivere occupando in qualche modo il tempo che passa, perdendoci dietro a idoli vari, perché in fondo, Dio ci ha deluso. Un cristiano spento, prima di essere un cristiano di basso profilo o basso livello etico, è anzitutto un credente rassegnato.
Anche nel brano evangelico (cf Mt 5,1-12) ritroviamo la medesima straordinaria miscela di presente e di futuro che Giovanni presenta attraverso il motivo della speranza. La santità è innamorata dell'oggi, vive intensamente il presente: essa è precisa scelta di campo a favore del regno di Dio. Si manifesta nella mitezza, nell'operare la pace, nella scelta della purezza di cuore e della povertà di spirito. In questo mondo, una scelta del genere si traduce anche in afflizione, persecuzione, fame e sete di giustizia.
Tuttavia, i poveri in spirito possono dirsi oggi beati, anche se afflitti, perché sanno che l'istante non è tutto. Sono beati oggi perché vedono il domani che proviene dalle mani di Dio. Sono innamorati del presente perché esso è come un seme gettato nel grembo della storia, che fiorirà alla luce dell'amore divino. Sono beati oggi perché sono appunto uomini di speranza: vedono ora la storia che si compirà domani. Tuttavia, l'orizzonte che scrutano non li esilia dal presente per quanto sia duro, come fosse una maledizione da cui sfuggire. La promessa di Dio fa loro gustare e amare ogni istante che vivono. Possono dire che la santità è il culto dell'istante che vivo, perché Dio lo corona di un significato eterno.
Così, nella fede sostenuta dalla speranza possiamo accarezzare il nostro presente, perché ne scorgiamo il rendiconto segreto: potremo, cioè, vedere come l'attimo esplode, dilatato infinitamente dall'avvento del Regno.

(tratto da Il Tesoro e la Perla, di C. Arletti)



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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia (Mt 5,7)
(vai al testo) - (pdf, formato A5/A4c)

Vedi anche i post:
La gioia del Cielo (1° novembre 2012)
Le Beatitudini, unità con i Santi (1° novembre 2011)


Commenti alla Parola:
  di Gianni Cavagnoli (VP 2014)
  di Marinella Perroni (VP 2011)
  di Enzo Bianchi


lunedì 27 ottobre 2014

Il Diaconato in Italia



Il Diaconato in Italia n° 186
(maggio/giugno 2014)

Il ministero dei diaconi
per una profezia nella storia







ARTICOLI
Profezia diaconia della storia (Giuseppe Bellia)
Povera per i poveri e perciò profetica (Virginio Colmegna)
Povera ma libera: la profezia incompiuta del Concilio (Luigi Alici)
«Non ci sono più profeti e nessuno sa fino a quando» (Paola Castorina)
Il diacono: uomo di misericordia scelto per servire (Anna Maria Cànopi)
Come cercare la profezia nella storia? (Giovanni Chifari)
Intervista al card. Ratzinger (Niels Christian Hvidt)
La missione dei diaconi per una diaconia profetica (Enzo Petrolino)
Diaconi profeti: è giunta l'ora? (Andrea Spinelli)
Il diacono "uomo della misericordia e della speranza" è segno profetico nella chiesa (Francesco Giglio)
Il Convegno Internazionale della Facoltà Teologica di Lugano (Enzo Petrolino)
Al termine della Assemblea Generale (Messaggio dei Vescovi italiani)

TESTIMONIANZE
Amministrando i beni della Chiesa (Alvaro Cappellini)
Due Camici (Gaetano Perricone)
Padre e figlio

RIQUADRI
Servire l'uomo (M.C. Bottino)
Il ruolo dei cattolici per una chiesa profetica (A. Zanotelli)
Missione, kénosi e diaconia (G.B.)



(Vai ai testi…)



domenica 26 ottobre 2014

Lavorare per l'unità della Chiesa


Ripensando alle omelie quotidiane di Papa Francesco alla Messa in Santa Marta, mi sono soffermato sull'omelia di venerdì scorso, 24 ottobre, quando il Papa parla dell'unità della Chiesa, del compito che i cristiani hanno di lavorare per questa unità, di essere "mattoni" che edificano sulla "Pietra".
Ho sentito importante per me questo "compito", perché mi riporta sempre al senso più genuino della mia e nostra diaconia: quella carità, quel servizio alla comunità che conduce all'unità, una diaconia che è umile servizio, fatto nella debolezza della nostra condizione.

«Fare l'unità della Chiesa, costruire la Chiesa, questo tempio, questa unità della Chiesa… è il compito di ogni cristiano, di ognuno di noi», ribadisce il Papa. Ma per costruire un tempio bisogna rispondere ad alcuni quesiti. Anzitutto "dove?". È necessario cioè cercare un'area su cui edificarlo. Una volta trovata «la prima cosa che si fa è cercare la pietra di base», la pietra angolare: «la pietra angolare della Chiesa, è Gesù», mentre «la pietra angolare dell'unità della Chiesa è la preghiera di Gesù nell'ultima cena: Padre, che siano uno». Proprio questa è «la forza» e «la pietra sulla quale noi edifichiamo l'unità della Chiesa. Senza questa pietra non si può. Non c'è unità senza Gesù Cristo alla base: è la nostra sicurezza».
Trovata la pietra angolare, c'è il passaggio successivo: "Chi?", «chi costruisce questa unità?». Questo «è il lavoro dello Spirito Santo», risponde Papa Francesco, perché Lui «è l'unico capace di fare l'unità della Chiesa», anche «nella diversità dei popoli, delle culture, delle persone». Per questo Gesù lo ha inviato: «per fare crescere la Chiesa, per farla forte, per farla una».
Quindi la terza domanda: "Come?", in che modo si costruisce questo tempio? La risposta questa volta la offre San Paolo, il quale - al contrario dell'Apostolo Pietro che «diceva che noi eravamo pietre vive in questa costruzione» - «ci consiglia di non essere tanto pietre, ma piuttosto mattoni deboli».
Di conseguenza «i consigli che dà Paolo per aiutare lo Spirito Santo a costruire questa unità sono consigli di debolezza, secondo il pensiero umano». E infatti «umiltà, dolcezza, magnanimità sono cose deboli, perché l'umile sembra che non serva a niente; la dolcezza, la mitezza sembrano non servire; la magnanimità, l'essere aperto a tutti, avere il cuore grande...».
Per di più Paolo aggiunge: «sopportandovi a vicenda nell'amore», ma «avendo a cuore di conservare l'unità». Così «noi diventiamo più pietre forti in questo tempio quanto più deboli ci facciamo con queste virtù dell'umiltà, della magnanimità, della dolcezza, della mitezza».
Ed è esattamente «lo stesso cammino» compiuto da Gesù, il quale «non ritiene di essere uguale a Dio: si abbassò, si annientò; si è fatto debole, debole, debole fino alla croce, e divenne forte». Il Papa ha ricordato che noi siamo chiamati a fare «lo stesso: quanto più noi siamo mattoni, così con queste virtù, più saremo utili allo Spirito Santo per fare l'unità della Chiesa». Al contrario, «l'orgoglio, la sufficienza non servono».
Alla fine si può dire - ha rimarcato il Papa - che «è lo Spirito a fare questa costruzione, questo tempio che è la Chiesa vivente, sulla pietra di base che è Gesù, che è una; sulla pietra di base che è la preghiera di Gesù per l'unità».
Tutti i cristiani sono chiamati allora a seguire questo cammino e farsi costruttori dell'unità della Chiesa. E come l'architetto deve tracciare una piantina prima di edificare, anche i cristiani hanno una loro planimetria da seguire che è «la speranza di andare verso il Signore, la speranza di vivere in una Chiesa viva, fatta con pietre vive, con la forza dello Spirito Santo».
«Soltanto sulla piantina della speranza possiamo andare avanti nell'unità della Chiesa». E papa Francesco conclude: «Siamo stati chiamati ad una speranza grande. Andiamo lì! Ma con la forza che ci dà la preghiera di Gesù per l'unità; con la docilità allo Spirito Santo, che è capace di fare da mattoni pietre vive; e con la speranza di trovare il Signore che ci ha chiamati, trovarlo quando avvenga la pienezza dei tempi».

venerdì 24 ottobre 2014

La "via" per amare Dio


30a domenica del T.O. (A)

Appunti per l'omelia

Un nuovo attacco a Gesù da parte degli avversari, in forma sottilmente polemica, come ci viene proposto dal brano evangelico di questa domenica (cf Mt 22,34-40): «Maestro, nella Legge qual è il grande comandamento?».
Nella sua risposta Gesù richiama due testi della legge di Mosè.
Anzitutto il passo del Deuteronomio (Dt 6,5): «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente». Il cuore, l'anima, la mente non designano tre facoltà differenti, ma l'uomo intero secondo dimensioni diverse: il "cuore" è il centro profondo della sua persona, dove nascono gli affetti e maturano le decisioni; l' "anima" indica l'intera sua esistenza sostenuta e permeata dal soffio vitale; la "mente" esprime la sua attività intellettuale. Tutta la realtà dell'uomo, tutto il suo essere Dio lo vuole interamente ed esclusivamente per sé. Ricordiamo il "Rendete... a Dio quello che è di Dio" del brano evangelico della scorsa domenica. «Questo è il grande e primo comandamento».
Questa affermazione di Gesù è incontestabile e certamente condivisa dal suo interlocutore.
A questo punto, però, Gesù aggiunge un testo che proviene da un altro libro della Legge, il libro del Levitico (Lv 19,18): «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Gesù lega strettamente all'amore di Dio l'amore del prossimo. Dopo aver affermato il primato indiscusso dell'amore per Dio, dichiara che il comandamento dell'amore del prossimo è "secondo", ma "simile a quello". Il primo non sta in piedi senza il secondo. Questo è la prova che amo Dio, è il modo concreto di amare Dio. Sono sicuro di amare Dio con tutto il cuore, se amo il prossimo come me stesso. Il credente non è più diviso fra i doveri verso Dio (culto, preghiera, osservanza del sabato...) e il suo comportamento nella vita familiare e sociale. Se vivo nell'amore le molteplici forme della relazione col prossimo (cf Es 22,20-26), in uguale misura cresce la mia relazione con Dio.
L'altro, che è semplicemente e sempre un fratello, non è un muro o una porta chiusa fra me e Dio. Ma una porta aperta, una via direttissima a Dio.
Non di rado, forse inconsciamente, consideriamo sottratto all'uomo ciò che si dà a Dio e sottratto a Dio ciò che si dà all'uomo. Come se Dio fosse antagonista dell'uomo, e non invece Creatore, di cui ogni uomo è "immagine", e Padre che gode della concordia fraterna dei suoi figli.
Nell'unità inscindibile che Gesù ha operato fra i due comandamenti si coglie la novità evangelica: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». Vale a dire che tutta la rivelazione biblica ruota attorno a questi due cardini e in essi viene riassunta.
Gesù ha dato compimento alla legge di Mosè, semplificandola e unificandola nel duplice comandamento dell'amore. Ha cioè rivelato in modo definitivo la volontà di Dio che consiste nell'amare Lui con cuore indiviso e nell'amare il prossimo in modo attivo e disinteressato.
Ma la novità e l'originalità di Gesù non sta soltanto nell'aver rivelato e insegnato l'unità di questi due comandamenti. Sta anche nel fatto che nessuno li ha vissuti così perfettamente come Lui. Mai sulla terra prima di Lui e di sua Madre nessuno aveva amato Dio con tale pienezza d'amore. Mai aveva amato in tale misura gli uomini. Mai prima né mai dopo.
Di conseguenza, amare per il cristiano, più che osservare un comandamento, è imitare una persona, è imitare Gesù. È fare come Lui. È imitare il Padre.
Inoltre, la novità sta anche nel fatto che un amore così, impossibile alle sole forze umane, il Padre e Gesù ce lo comunicano, donandoci il loro Spirito.
Implorare da Dio il dono dello Spirito Santo è chiedere la capacità di amare con lo stesso amore di Dio.



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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Maestro, qual è il grande comandamento? (Mt 22,36)
(vai al testo) - (pdf, formato A5/A4c)

Commenti alla Parola:
  di Gianni Cavagnoli (VP 2014)
  di Marinella Perroni (VP 2011)
  di Enzo Bianchi



giovedì 23 ottobre 2014

Se siamo uniti…


«Se siamo uniti, Gesù è fra noi. E questo vale. Vale più d'ogni altro tesoro che può possedere il nostro cuore: più della madre, del padre, dei fratelli, dei figli. Vale più della casa, del lavoro, della proprietà; più delle opere d'arte d'una grande città come Roma, più degli affari nostri, più della natura che ci circonda con i fiori ed i prati, il mare e le stelle: più della nostra anima.
È lui che, ispirando i suoi santi con le sue eterne verità, fece epoca in ogni epoca.
Anche questa è l'ora sua: non tanto d'un santo, ma di lui; di lui fra noi, di lui vivente in noi, edificanti - in unità d'amore - il Corpo Mistico suo.
Ma occorre dilatare il Cristo; accrescerlo in altre membra; farsi come lui portatori di Fuoco.
Far uno di tutti ed in tutti l'Uno!
Ed allora viviamo la vita che egli ci dà attimo per attimo nella carità.
È comandamento base l'amore fraterno. Per cui tutto vale ciò che è espressione di sincera fraterna carità. Nulla vale di ciò che facciamo se in esso non vi è il sentimento d'amore per i fratelli: ché Iddio è Padre ed ha nel cuore sempre e solo i figli».

Chiara Lubich
Scritti spirituali/1


martedì 21 ottobre 2014

A servizio dell'unità


Il brano della lettera agli Efesini (Ef 2,12-22), che la liturgia di oggi (martedì della 29a sett. del T.O.) ci offre, mi fa riflettere sulla natura del servizio a cui siamo chiamati: una diaconia che conduce all'unità. Pensando alla figura del diacono come ponte e cerniera tra l'altare e il popolo, mi si imprimono sempre di più quelle caratteristiche della carità che mi riportano a quell'unità della comunità che siamo chiamati a costruire. È Gesù che "ci fa uno", mediante il suo sangue.
«In Gesù Cristo, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie del sangue di Cristo. Egli è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva…».
«Egli è venuto è venuto ad annunciare la pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Così voi non siete più stranieri e ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio».
La diaconia, se non porta alla koinonia, alla comunione, all'unità è "cembalo risonante". La figura del diacono, quale ministro del calice, mi richiama a quel dare la vita a cui siamo invitati, sull'esempio di Gesù, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita


venerdì 17 ottobre 2014

La nostra vita per l'unico Dio


29a domenica del T.O. (A)

Appunti per l'omelia

«È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». È una domanda trabocchetto quella che gli avversari pongono a Gesù, come raccontato nel brano evangelico di questa domenica (cf Mt 22,15-21). Ogni ebreo, dai quindici ai sessantacinque anni, era tenuto a pagare all'imperatore un tributo personale che consisteva in un denaro d'argento: una speciale moneta romana che, in quel tempo, portava impressa l'immagine dell'imperatore con la scritta "Tiberio Cesare, figlio del divino Augusto, Augusto". Corrispondeva al salario di una giornata lavorativa. Da gran parte del popolo - e in particolare dai farisei - era visto come un segno infamante della sottomissione a Roma. C'era anche chi - come l'ala estremista degli zeloti - considerava tale pagamento un atto d'idolatria, un rinnegamento del Dio unico per riconoscere il "divino" imperatore.
La domanda, estremamente insidiosa, sembra non lasciare a Gesù via d'uscita. Se risponde "Pagate", perderà la stima del popolo, attirandosi disapprovazione e antipatia, passando per un nemico del popolo. Se invece risponde "Non pagate", potrà essere denunciato all'autorità romana come sobillatore e ribelle.
Gesù smaschera la loro malizia e ipocrisia. Essi dispongono del denaro, che Egli invece non ha: usando la moneta romana e traendone vantaggio, dimostrano di accettare la sovranità dell'imperatore. La risposta di Gesù li sorprende e li spiazza: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Pagare il tributo all'imperatore non è mancare di fedeltà a Dio. Non solo è lecito, ma doveroso. Lo stato ha la sua ragion d'essere. I veri credenti sono leali verso di esso, buoni e onesti cittadini. Così facendo, onorano Dio. Nella stessa linea si muoveranno San Paolo (cf Rm 13,1ss) e San Pietro (cf 1Pt 2,13-14).
Ma nella risposta di Gesù l'accento con tutta la sua forza cade sulla seconda parte: «…e a Dio quello che è di Dio». Gesù rivendica la posizione unica ed esclusiva che Dio occupa nella vita dell'uomo.
È l'appello che già risuonava nelle parole del profeta Isaia (cf Is 45,1-6): «Io sono il Signore e non c'è alcun altro; fuori di me non c'è Dio... Non c'è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n'è altri».
A Dio non si dà una moneta, ma ciò che è suo, cioè interamente noi stessi, la nostra esistenza, la nostra persona: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore…» (Mt 22,37). Ed anche: se Cesare, il potere politico, attentasse ai diritti di Dio, pretendendo di imporre ciò che contrasta con la sua volontà (e quindi col vero bene delle persone), il credente dovrà ubbidire a Dio e non allo stato.
È importante cogliere nella risposta di Gesù la sua logica di fondo: come la moneta porta l'immagine dell'imperatore e quindi a lui va restituita, così ogni uomo reca impressi il sigillo e l'immagine di Dio e quindi è da restituire a Lui in una appartenenza totale e senza ombra. L'immagine di Dio che portiamo in quanto creati da Lui è divenuta chiara e inconfondibile in virtù del battesimo, che ci ha resi conformi a Cristo, ci ha legati a Lui e al Padre in modo vitale e definitivo. Esige perciò di tornare a Lui integra e non offuscata.
Se tutto ciò che mi appartiene e che sono devo renderlo a Dio, perché è suo, allora il mio impegno sta nella verifica se compio un tale dovere. Nel tempo, per esempio, che Dio mi concede, vivendolo come dono ricevuto e ricambiato. Nel mio impegno in favore della porzione di umanità in cui vivo. Dio infatti comanda di amare tutti e di amare sempre, in ogni situazione. Allora, ogni forma di impegno sociale e politico, vissuta come servizio fraterno al prossimo, diventa il modo concreto di vivere il primato di Dio nella nostra esistenza. Non è l'attività sociale, economica e politica in quanto tale che mi salva, ma il credente non si salva, se non assume e non svolge con carità e professionalità il ruolo che gli compete nella vita pubblica, perché servire i fratelli è partecipare alla stessa diaconia di Cristo.



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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
A Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio (Mt 22,21)
(vai al testo) - (pdf, formato A5/A4c)

Commenti alla Parola:
  di Gianni Cavagnoli (VP 2014)
  di Marinella Perroni (VP 2011)
  di Enzo Bianchi


mercoledì 15 ottobre 2014

Breve profilo del diacono


Ho rimeditato in questi giorni sulla figura del diacono, spinto anche dalle raccomandazioni che san Paolo fa nella sua lettera a Timoteo e da quanto scrive sant'Ignazio nella sua Lettera ai cristiani di Tralle.

San Paolo scrive: «Allo stesso modo [dei vescovi] i diaconi siano persone degne e sincere nel parlare, moderati nell'uso del vino e non avidi di guadagni disonesti, e conservino il mistero della fede in una coscienza pura. Perciò siano prima sottoposti a una prova e poi, se trovati irreprensibili, siano ammessi al loro servizio. I diaconi siano mariti di una sola donna e capaci di guidare bene i figli e le proprie famiglie» (1Tm 3,8-10.12). Del vescovo, sempre san Paolo scrive: «Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola donna, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia guidare bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi e rispettosi, perché, se uno non sa guidare la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?» (1Tm 3,2-5).
È sorprendente come il diacono sia rapportato al vescovo. Dal che si capisce il legame unico che unisce il diacono al vescovo, come da padre a figlio, intravedendo nel diacono i lineamenti del vescovo.

E sant'Ignazio ai cristiani di Tralle: «Siate sottomessi al vescovo come a Gesù Cristo, e perciò non vivete secondo gli uomini, ma secondo Gesù Cristo che è morto per noi. […] È necessario che, come già fate, nulla facciate senza il vescovo e che siate sottomessi anche al collegio presbiterale come agli apostoli di Gesù Cristo, nostra speranza, per essere trovati in comunione con lui.
È necessario che anche i diaconi, quali ministri dei misteri di Gesù Cristo, siano accetti a tutti in ogni cosa: non sono infatti ministri di cibi o di bevande, ma della Chiesa di Dio, e debbono perciò tenersi lontani da ogni colpa come dal fuoco.
Da parte loro tutti rispettino i diaconi come Gesù Cristo, onorino particolarmente il vescovo, che è immagine del Padre, e i presbiteri quale senato di Dio e assemblea degli apostoli. Senza di essi non si può parlare di chiesa».

Anche in sant'Ignazio si evidenzia questo rapporto strettissimo tra vescovo e diacono, immagine del rapporto tra il Padre e il Figlio, con tutte le conseguenze spirituali e pastorali che ne conseguono.
Non voglio fare ulteriori commenti, lasciando a chi legge di meditare ed immaginare una chiesa "servita" ed amata da un simile ministero, dove il collegio dei presbiteri fa corona ed accoglie nella sua comunione questa relazione tra vescovo e diacono, quale presenza, oserei dire, dello Spirito Santo.

A questo proposito rimando ad un mio intervento che ho pubblicato su questo blog, dal titolo:"Secondo l'amore trinitario" (17/05/2008).

Per ulteriori approfondimenti, ecco alcuni altri interventi su questo blog:
I diaconi secondo Ignazio di Antiochia (11/09/2012)
La diaconia del pastore (15/05/2011)
Testimonianze di santità diaconale [3] (10/01/2013)
Il prossimo, via all'unione con Dio (17/10/2013)
Servire solamente (9/06/2014)

Nella foto: un momento della mia ordinazione diaconale


venerdì 10 ottobre 2014

Alla Festa di nozze: invito rifiutato, invito accettato


28a domenica del T.O. (A)

Appunti per l'omelia

I profeti (cf in particolare Is 25,6-10) avevano annunciato e descritto l'intervento definitivo di Dio nella storia con l'immagine di un banchetto, a cui sarebbero stati invitati tutti i popoli. Questa festa conviviale simboleggia la salvezza che sazia sovrabbondantemente la fame e la sete dell'uomo. Simboleggia la gioia e il trionfo della vita. Soprattutto significa un profondo rapporto di conoscenza e amicizia fra colui che invita, Dio, e i suoi ospiti: Nell'incontro con Dio verrà guarita la cecità spirituale che impediva agli uomini di riconoscere Dio e di scoprirsi fratelli: «Egli strapperà il velo che copriva la faccia di tutti i popoli».
All'inizio della parabola proposta nel vangelo odierno (cf Mt 22,1-14) Gesù evoca questo tema biblico, così ricco di significato, e rivela che l'annuncio di Isaia si compie.
Di più, questo banchetto viene specificato come una festa di nozze: Gesù inaugura la festa del Regno, che è la festa delle nozze di Dio e di suo Figlio con l'umanità. Secondo il Vangelo c'è un'unica grande festa di nozze nella storia, un unico incontro nuziale, l'incontro di Dio con l'umanità. E questo incontro si realizza attraverso Gesù, questo incontro è Gesù. Dio ha voluto stringere un'alleanza definitiva d'amore con la famiglia umana. Dio ha voluto sposare l'umanità. È questo l'evento nuziale per eccellenza e tutti gli altri rapporti nuziali traggono il loro significato, la loro bellezza e forza da questo incontro, che è stato celebrato in forma misteriosa e primordiale nel grembo della Vergine Maria ed è culminato nella morte-risurrezione del Signore. In ogni Eucaristia tale evento è reso presente e noi vi siamo coinvolti. Nell'inizio della parabola, dove Gesù è lo Sposo, Egli annuncia l'avvenimento inaudito che sta accadendo: la comunione gioiosa e definitiva di Dio col suo popolo, anzi con l'umanità intera, attraverso il proprio figlio Gesù.
Il re «mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze… Mandò di nuovo altri servi a dire: tutto è pronto; venite alle nozze!». Dio ripete le sue chiamate. Desidera che il suo invito venga accettato senza ritardi. Quindi invia ripetutamente i suoi servi, i profeti, e in seguito i discepoli di Gesù che lungo la storia annunciano il Vangelo. È immenso, infatti, il suo bisogno di far partecipare tanti altri alla gioia sua e del Figlio.
La parabola sottolinea, in modo accentuato, il comportamento dei chiamati. Davanti a un'offerta così grande, davanti a un'opportunità così inattesa, essi reagiscono con la noncuranza e col rifiuto. Per loro vale di più attendere ai propri interessi. Altri, addirittura, respingono i servi e li uccidono, provocando l'intervento punitivo del re.
Ma la festa si farà: la risposta negativa dell'uomo non può arginare il flusso dell'amore di Dio che vuole dilagare dovunque e fare tutti felici. «Andate ora ai crocicchi delle strade... Quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali». I nuovi invitati sono i peccatori e le varie categorie di esclusi che accolgono Gesù e si legano a Lui. Sono poi i pagani che entreranno in massa nella Chiesa. Sono, ancora oggi, tanti che per vie diverse approdano alla comunità cristiana e si ritrovano nella grande "sala" dove si celebra la festa dell'amore.
La storia sembra concludersi lietamente. Ma ecco, inaspettatamente, la scena conviviale si tramuta in una specie di tribunale e il re diventa giudice.
Non basta essere invitati, aver accettato l'invito, partecipare alla festa, ritrovarsi, cioè, nella Chiesa grazie al Battesimo, per essere salvi definitivamente. Bisogna rispondere a certe esigenze di "comportamento" richiesto dal Vangelo, per poter sedere a mensa nella casa del Signore. La condizione è l'«abito nuziale» senza il quale si è esclusi dalla salvezza, precipitando nelle "tenebre" della perdizione eterna. L'abito (cf Ap 19,8) simboleggia la fedeltà a Dio nel compiere la sua volontà, in particolare le opere dell'amore fraterno (cf Mt 25,31-46). Corrisponde ai "frutti" nella parabola dei vignaioli omicidi. Ed è spontaneo richiamare la veste bianca ricevuta nel rito del Battesimo, simbolo della realtà nuova e dell'appartenenza a Cristo, con l'impegno di imitare il suo stile di vita, dove ci è chiesto di portarla "senza macchia per la vita eterna".
La parabola mostra la stupidità e incoscienza degli uomini che, davanti a un invito così fantastico, lo rifiutano e così rifiutano la felicità.
Dall'altra parte, mette in luce l'inesauribile tenacia di Dio che porta avanti il suo progetto d'amore: la festa si fa lo stesso.



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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze (Mt 22,9)
(vai al testo) - (pdf, formato A5/A4c)

Commenti alla Parola:
  di Gianni Cavagnoli (VP 2014)
  di Marinella Perroni (VP 2011)
  di Enzo Bianchi


venerdì 3 ottobre 2014

Il rifiuto dell'amore di Dio o una vita piena di gesti di amore


27a domenica del T.O. (A)

Appunti per l'omelia

Nel brano evangelico odierno (cf Mt 21,33-43) ancora una parabola che fa riferimento alla vigna. Attraverso questa parabola, il cui significato è trasparente, Gesù lancia un ultimo appello ai responsabili di Israele, che stanno complottando per ucciderlo. Sono gli ultimi giorni della sua vita. Egli cerca di provocare in loro un ripensamento, una conversione, prima che sia troppo tardi. Lo fa attraverso una parabola che, sotto il velo delle immagini e dei simboli, rievoca alcune tappe fondamentali della storia della salvezza, la storia cioè dell'amore fedele e ostinato di Dio per il suo popolo.
L'avvio di questa storia richiama il celebre testo di Isaia 5,1-7 e mostra come il padrone non ha trascurato nulla perché la sua vigna fosse feconda. Dio cioè con un amore provvidente e instancabile ha protetto Israele e lo ha ricolmato di benefici. Il padrone perciò aveva diritto ai frutti della vigna, il Signore aveva diritto alla risposta d'amore e di fedeltà da parte del suo popolo. Ma, invano, Dio ha mandato a più riprese i «suoi servi», cioè i profeti, per richiamare il suo popolo ai doveri dell'Alleanza. I profeti non sono stati accolti, anzi rifiutati, maltrattati, uccisi.
Ma il racconto riserva una sorpresa. La storia di una relazione deficitaria con Dio, che sembrava trascinarsi in modo monotono e ripetitivo, subisce una svolta imprevista, del tutto inattesa: «Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto per mio figlio!». Dopo i molti servi, ora manda uno che gli sta a cuore in assoluto ed è il suo unico tesoro: il proprio figlio... "mio figlio". È il suo ultimo tentativo, la sua ultima speranza. Dicendo queste parole, Gesù manifesta, sia pure velatamente, la coscienza che ha di essere Lui questo figlio.
È l'ultima tappa di questa storia, la più drammatica di tutte, perché anche più carica d'amore. Ma l'irreparabile accade. Il fallimento della missione è totale: il figlio viene rifiutato, ucciso. Gesù allude alla propria passione e morte. La risposta a tanto amore non poteva immaginarsi più ingrata e assurda. La delusione del padrone, cioè Dio, è totale.
Ma la storia si ferma qui? Ci sarà una "rivincita"?. Sì, una duplice rivincita.
La prima riguarda Gesù: «La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d'angolo». Colui che i capi del popolo hanno eliminato giudicandolo una pietra di scarto, inutile e inadatta a far parte dell'edificio, Dio lo ha riabilitato scegliendolo come pietra d'angolo. E qui siamo invitati a contemplare il Crocifisso, lo "scartato" nella sua passione umiliante, ma risuscitato e costituito dal Padre come Signore e fonte di vita.
La seconda rivincita riguarda, appunto, la comunità dei credenti: «A voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti». Questo popolo è il vero Israele, sostenuto e unificato dall'unica pietra d'angolo che è il Cristo crocifisso e risorto. Comprende ebrei e pagani che aderiscono nella fede al Signore Gesù.
È facile per noi cristiani, nell'ascolto di questa parabola, interpretarla soltanto in riferimento al passato, come se riguardasse unicamente l'antico Israele. In tal caso, perché l'evangelista l'avrebbe riportata?
In realtà la storia della salvezza continua, è in pieno corso e noi vi siamo coinvolti.
Le attenzioni, i doni, gli interventi di Dio in nostro favore chi è in grado di contarli e misurarli? Ne potessimo almeno riconoscere qualcuno e ringraziare senza pretese!
Lo sappiamo, i doni di Dio sono esigenti. Chi dà tutto vuole anche tutto. E nel caso di Dio, se vuole tutto, è unicamente perché vuole la nostra felicità. Vuole i "frutti", una vita di fedeltà rinnovata a Lui, una vita trascorsa nel compimento della sua volontà, una vita piena di gesti d'amore.



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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
La pietra scartata è diventata la pietra d'angolo (Mt 21,42)
(vai al testo) - (pdf, formato A5/A4c)

Commenti alla Parola:
  di Gianni Cavagnoli (VP 2014)
  di Marinella Perroni (VP 2011)
  di Enzo Bianchi