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martedì 30 settembre 2014

Essere apostoli oggi


Rimeditando il discorso che papa Francesco ha rivolto ai partecipanti l'Assemblea Generale del Movimento dei Focolari il 26 settembre scorso, nella Sala Clementina, ho colto nelle "tre parole" che il Papa ha rivolto ai presenti e a tutti coloro che «in vari modi ne condividono lo spirito e gli ideali» («contemplare, uscire, fare scuola»), un programma serio e ricco di prospettive per il nostro impegno verso la Chiesa e l'umanità che siamo chiamati a servire.
È come una magna carta per vivere con frutto la nostra opera di evangelizzazione. Parole rivolte ad un gruppo particolare, ma essenziali per tutti.

«Innanzitutto, contemplare - dice il Papa. Oggi abbiamo più che mai bisogno di contemplare Dio e le meraviglie del suo amore, di dimorare in Lui, che in Gesù è venuto a porre la sua tenda in mezzo a noi, (cfr Gv 1,14). Contemplare significa inoltre vivere nella compagnia con i fratelli e le sorelle, spezzare con loro il Pane della comunione e della fraternità, varcare insieme la porta (cfr Gv 10,9) che ci introduce nel seno del Padre (cfr Gv 1,18), perché "la contemplazione che lascia fuori gli altri è un inganno" (Esort. ap. Evangelii gaudium, 281). È narcisismo.
Ispirata da Dio in risposta ai segni dei tempi, Chiara Lubich scriveva: "Ecco la grande attrattiva del tempo moderno: penetrare nella più alta contemplazione e rimanere mescolati fra tutti, uomo accanto a uomo" (Scritti spirituali 1, 27). Per realizzare questo è necessario allargare la propria interiorità sulla misura di Gesù e del dono del suo Spirito, fare della contemplazione la condizione indispensabile per una presenza solidale e un'azione efficace, veramente libera e pura. […]».

La seconda parola, molto importante perché esprime il movimento dell'evangelizzazione, è uscire. Uscire come Gesù è uscito dal seno del Padre per annunciare la parola dell'amore a tutti, fino a donare tutto sé stesso sul legno della croce. Dobbiamo imparare da Lui, da Gesù, "questa dinamica dell'esodo e del dono, dell'uscire da sé, del camminare e seminare sempre di nuovo, sempre oltre" (Esort. ap. Evangelii gaudium, 222), per comunicare a tutti generosamente l'amore di Dio, con rispetto e come ci insegna il Vangelo: "gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date" (Mt 10,8). Questo senso della gratuità: perché la Redenzione è stata fatta nella gratuità. Il perdono dei peccati non si può "pagare". Lo ha "pagato" Cristo una volta, per tutti! La gratuità della Redenzione, noi dobbiamo attuarla con i fratelli e le sorelle. Dare con gratuità, gratuitamente, quello che abbiamo ricevuto. E la gratuità va insieme alla creatività: le due vanno insieme.
Per fare questo, occorre diventare esperti in quell'arte che si chiama "dialogo" e che non s'impara a buon mercato. Non possiamo accontentarci di mezze misure, non possiamo indugiare, ma piuttosto, con l'aiuto di Dio, puntare in alto e allargare lo sguardo! E per far questo dobbiamo uscire con coraggio "verso di Lui fuori dall'accampamento, portando il suo disonore" (Eb 13,13). Egli ci aspetta nelle prove e nei gemiti dei nostri fratelli, nelle piaghe della società e negli interrogativi della cultura del nostro tempo. Fa male al cuore quando, davanti a una chiesa, a una umanità con tante ferite, ferite morali, ferite esistenziali, ferite di guerra, che sentiamo tutti i giorni, vedere come i cristiani incominciano a fare "bizantinismi" filosofici, teologici, spirituali, ma serve invece una spiritualità dell'uscire. Uscire con questa spiritualità: non rimanere dentro chiuso a quattro mandate. Questo non va. Questo è "bizantinismo"! Oggi non abbiamo diritto alla riflessione bizantinistica. Dobbiamo uscire! Perché - l'ho detto altre volte - la Chiesa sembra un ospedale da campo. E quando si va in un ospedale da campo, il primo lavoro è curare le ferite, non fare il dosaggio del colesterolo… questo verrà dopo… È chiaro?».

«E infine la terza parola: fare scuola. San Giovanni Paolo II, nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte, ha invitato tutta la Chiesa a diventare "casa e scuola della comunione" (cfr n. 43), e voi avete preso sul serio questa consegna. Occorre formare, come esige il Vangelo, uomini e donne nuovi e a tal fine è necessaria una scuola di umanità sulla misura dell'umanità di Gesù. È Lui, infatti, l'Uomo nuovo a cui in ogni tempo i giovani possono guardare, di cui possono innamorarsi, la cui via possono seguire per far fronte alle sfide che ci stanno di fronte. Senza una adeguata opera di formazione delle nuove generazioni, è illusorio pensare di poter realizzare un progetto serio e duraturo a servizio di una nuova umanità.
Chiara Lubich aveva a suo tempo coniato un'espressione che rimane di grande attualità: oggi - diceva - occorre formare "uomini-mondo", uomini e donne con l'anima, il cuore, la mente di Gesù e per questo capaci di riconoscere e di interpretare i bisogni, le preoccupazioni e le speranze che albergano nel cuore di ogni uomo. […]».


venerdì 26 settembre 2014

Fare la volontà del Padre, sull'esempio di Gesù


26a domenica del T.O. (A)

Appunti per l'omelia

Per comprendere la parabola proposta dal brano del vangelo odierno (cf Mt 21,28-32), occorre ricordare la situazione concreta che spinge Gesù a narrarla. I "trasgressori" della Legge, cioè i pubblicani e i peccatori, ascoltano il suo annuncio e si convertono. Invece i responsabili di Israele, sacerdoti e anziani del popolo, rifiutano Lui e il suo messaggio, appellandosi alla fedeltà verso la Legge. Nel tempo, poi, in cui Matteo scrive il vangelo, i pagani accolgono la predicazione della chiesa, mentre i giudei la rifiutano in massa.
Nella parabola Gesù delinea due tipi diversi di risposta a Dio che rivela la sua volontà.
C'è il comportamento dei peccatori e dei pagani rappresentati dal primo figlio. È su questa categoria che Gesù intende richiamare subito l'attenzione. Sono gli uomini e le donne che dicono di no, cioè non osservano la Legge, come i ladri, i pubblicani, le prostitute, e vengono disprezzati e condannati dalla categoria degli osservanti.
Essi però hanno avuto la fortuna di incontrare Gesù, o meglio di lasciarsi trovare da Lui che li andava cercando. Il suo messaggio è certamente più esigente della Legge, perché chiede un radicale cambiamento di vita. Ma è incentrato nell'annuncio che Dio è Amore e quindi attende e desidera abbracciare i figli perduti. Per questo, scoprendosi amati, essi accolgono la volontà di Dio che Gesù rivela.
Spesso chi ha sperimentato il freddo e il vuoto lontano da casa, sa scoprire e gustare la gioia del rientro in famiglia molto più di chi ci vive dentro in modo abitudinario e superficiale. Allora, se prima hanno detto "no", ora dicono un "sì" pieno alla volontà del Padre. In questo passaggio dal "no" al "sì" sta la loro conversione («Ma poi si pentì e vi andò»).
C'è, poi, la categoria raffigurata nel secondo figlio.
Sono i maestri e le guide religiose del popolo. La parabola mostra che mentre sono persuasi di essere fedeli alla volontà di Dio manifestata dalla Legge, in realtà rifiutano il suo disegno che ora si sta attuando in Gesù. In nome dell'attaccamento alla Legge, tradiscono Dio, che rivela la sua volontà definitiva in Gesù. Non è pensabile, infatti, che si possa dire di sì alla Legge e di no a Cristo. Essi, avrebbero dovuto riconoscere la volontà di Dio che si manifestava nella predicazione di Giovanni Battista e poi in quella di Gesù, e avrebbero dovuto dare un esempio di accoglienza pronta e totale di tale verità. Invece, prigionieri della loro falsa sicurezza e autosufficienza, si rifiutano di convertirsi, diventando ribelli alla volontà di Dio.
La parabola stigmatizza l'adesione formale, piena di rispetto, del secondo figlio, che dice di sì all'appello del padre, ma, poi, non attua l'impegno che si è preso.
È l'atteggiamento religioso di chi professa la fede, recita il Credo, sa a memoria le verità rivelate e i Comandamenti. Ma sul piano delle scelte concrete non compie le opere che la fede richiede.
Gesù non nasconde la sua simpatia per la categoria richiamata dal primo figlio.
La gente perduta ha scoperto la misericordia del Padre, ha accolto la parola di Gesù ed è stata capace di "pentirsi". I "giusti", invece, osservanti meticolosi della Legge, ritenendo di non aver bisogno di conversione, si chiudono alla nuova volontà di Dio rivelata da Gesù. Allora coloro che secondo la valutazione corrente sono i primi, possono diventare gli ultimi di fronte al Regno di Dio che si fa presente in Gesù:«In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio».
Il richiamo ad una concreta conversione ci viene dall'invito dell'apostolo Paolo (cf Fil 2,1-11) ad avere, superando ogni spirito di «rivalità o vanagloria» e «considerando gli altri superiori a se stessi», ad avere gli «stessi sentimenti di Cristo Gesù, … che non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo…».



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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Chi dei due ha compiuto la volontà del Padre? (Mt 21,31)
(vai al testo) - (pdf, formato A5/A4c)

Commenti alla Parola:
  di Gianni Cavagnoli (VP 2014)
  di Marinella Perroni (VP 2011)


venerdì 19 settembre 2014

La gratuità di Dio


25a domenica del T.O. (A)

Appunti per l'omelia

Il brano evangelico di questa domenica (cf Mt 20,1-16) riporta la prima di tre parabole di Gesù che ruotano tutte attorno al tema della vigna. Un padrone esce all'alba e, successivamente, in diverse ore del giorno fino alle cinque del pomeriggio, a ingaggiare operai. C'è urgenza di mano d'opera, forse per la vendemmia. La giornata lavorativa era di dodici ore: dall'alba (circa le sei del mattino) al tramonto (verso le sei di sera). Con gli operai incontrati all'alba si accorda per la paga "giusta" (oggi diremmo "sindacale") di un denaro. Al termine della giornata, nel momento della paga, si verifica qualcosa di imprevedibile e molto strano: quelli che hanno lavorato un'ora soltanto ricevono un denaro, cioè la paga pattuita con i primi operai per l'intera giornata. Così pure gli altri gruppi ricevono un denaro. I primi, costatando la grande generosità del padrone, si aspettano una ricompensa abbondante. Invece, con viva delusione, ricevono un denaro. Non nascondono il proprio disappunto e accusano il padrone di ingiustizia. Ma il padrone non ha agito ingiustamente, perché ha dato loro il dovuto, cioè la somma convenuta. Precisa poi che del suo è libero di disporre come vuole. E conclude: «...sei invidioso (letteralmente: "il tuo occhio è cattivo") perché io sono buono?».
Con questa parabola Gesù ha di mira coloro criticano le sue scelte nei confronti di coloro che non contano sul paino religioso, e lo accusano di mettere sulle stesso piano peccatori e giusti. Ecco l'ingiustizia!
Ma Gesù mostra che Dio ha un modo di agire imprevedibile, fuori schema, che non può essere giudicato secondo i criteri umani: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie…» (cf Is 55,8-9).
L'uomo non può chiedere conto a Dio della sua condotta, che rivela una "giustizia" superiore. Il suo Regno Duo lo offre a tutti, anche a chi arriva all'ultima ora.
Se dà un salario uguale per un lavoro disuguale, ciò non significa che esclude e disprezza coloro che hanno lavorato tutto il giorno. Anzi gradisce molto il loro impegno e servizio. Soltanto vuole togliere loro la presunzione di particolari meriti e privilegi davanti a Lui. Perché la ragione ultima del suo modo di agire è la bontà di Dio che supera i parametri della retribuzione intesa come una paga dovuta. E con ciò non vìola la giustizia, ma la realizza in modo più vero.
In altri termini, la "vita eterna" non è una ricompensa che mi spetta per diritto, in base a meriti personali, ma è un dono totalmente gratuito della bontà divina, perché la "vita eterna" è in definitiva "Dio che si dona". Chi può meritarlo?
Di fronte a questo amore divino che è totale gratuità che senso ha essere invidiosi? E sarebbe un'interpretazione scorretta della parabola concludere che a Dio poco importa se uno lavora e si impegna, oppure no. Basta pensare alla parabola dei talenti (cf Mt 25, 14-30). Ogni minimo gesto di amore lo incanta. Dio però ama anche gli ultimi e vuole che i suoi condividano la sua benevolenza e liberalità.
Gesù infatti smaschera impietosamente l'egoismo e l'orgoglio che si nascondono dietro l'apparente esigenza di giustizia: «Li hai trattati come noi». Ciò che non si tollera è che gli altri siano sul nostro stesso piano, quasi che il nostro valore e il nostro prestigio risaltino meglio finché gli altri rimangono un gradino sotto di noi: è la posizione di privilegio che rivendichiamo per noi e non accettiamo che altri la condividano. Questo modo di pensare, col conseguente comportamento, capovolge il comandamento «ama il prossimo tuo come te stesso» e nega praticamente il legame fraterno che unisce i membri della comunità.
Affermando con forza il principio della "gratuità", Gesù contesta una concezione di Dio e del mondo propria dei farisei (di tutti i tempi): un sistema di relazioni fondato sul merito, in cui l'amicizia con Dio si compra e in cui ogni uomo vale quanto valgono le sue prestazioni. Un mondo in cui chi sbaglia deve pagare duramente. Altrimenti non varrebbe la pena fare tanti sforzi per essere "giusti". In realtà un tale mondo, dove non c'è spazio per la misericordia e la gratuità, si rivela "disumano".
Gesù ci ricorda che non possiamo fare calcoli con Dio, insegnandogli che cosa deve dare a noi e agli altri. Non possiamo lamentarci con Lui d'aver ricevuto meno doni degli altri. D'altra parte, chi è in grado di misurarlo? Piuttosto sapremo riconoscere con stupore e gratitudine tutto ciò che ci dona, mentre ci rallegreremo di ogni gesto della sua bontà, anche quando non riguarda direttamente noi, ma il prossimo.
Se la gratuità spiega il comportamento di Dio con noi e di conseguenza le nostre relazioni con gli altri, allora tutto cambia. Non mi fa problema sentirmi "un operaio dell'ultima ora". So infatti che mio Padre mi darà la vita eterna non perché me la sono guadagnata, ma perché sono suo figlio e ai figli i genitori donano gratuitamente la loro eredità. Una tale convinzione però non incoraggia e non giustifica il disimpegno, ma mi stimola a operare con sempre maggior sintonia con la volontà di mio Padre, che mi dà fiducia e conta su di me, e che io non intendo deludere.



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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Sei invidioso perché io sono buono? (Mt 20,15)
(vai al testo) - (pdf, formato A5/A4c)

Commenti alla Parola:
  di Gianni Cavagnoli (VP 2014)
  di Marinella Perroni (VP 2011)



venerdì 12 settembre 2014

La Croce e la Gloria


24a domenica del T.O. (A)
Esaltazione della Santa Croce

Appunti per l'omelia

Celebriamo oggi la Festa dell'Esaltazione della santa Croce. È un'occasione per fissare lo sguardo sul mistero dell'amore manifestatosi sulla Croce: amore del Padre che ha donato il Figlio per la vita del mondo e amore del Figlio che ha donato la sua vita per noi.
Per invitarci a contemplare questo mistero, la Chiesa ha scelto un breve brano del Vangelo di Giovanni (cf Gv 3,13-17), costituito da alcune parole rivolte da Gesù a Nicodemo: "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo". Essere innalzato significa certamente essere elevato da terra, ma anche essere innalzato da Dio, che prenderà Gesù nella sua gloria e lo farà Signore universale. Sono così unite in mirabile sintesi la Croce e la Gloria.
Gesù ha saputo trasformare anche la Croce in luogo glorioso, luogo in cui egli ha amato gli uomini "sino alla fine" (Gv 13,1).
«Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo la condizione di servo, divenendo simile agli uomini. Umilio se stesso facendosi obbediente fino ala morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome…» (Cf Fil 2,6-11).
Gesù ha vissuto la sua esistenza nella libertà e per amore degli uomini, ai quali ha dato tutto se stesso; e solo l'amore di Dio narrato da Gesù può trasformare uno strumento di morte in una fonte di vita. Viviamo anche noi le nostre croci nell'amore e l'amore saprà trasformare in vita ogni dolore, ogni difficoltà.


venerdì 5 settembre 2014

La fraternità, frutto della presenza di Gesù tra i suoi


23a domenica del T.O. (A)

Appunti per l'omelia

Il vangelo di questa domenica (cf Mt 18,50-20) ci propone un brano di un nuovo discorso di Gesù, dove Egli enuncia alcune regole di vita comunitaria, indica come si vive all'interno della sua famiglia, una famiglia di fratelli dove ognuno è prezioso agli occhi del Padre che circonda di speciale misericordia i "piccoli", i cristiani più fragili e più a rischio di venir meno nella fede.
In questa "famiglia" ognuno deve sentirsi responsabile affinché nessuno si perda. La Chiesa è, appunto, una famiglia dove ognuno è legato all'altro e responsabile dell'altro. Così, se un nostro fratello commetterà una colpa o farà azioni che lo portano ad allontanarsi dalla comunità, che cosa si deve fare?
Deve scattare l'operazione "ricupero" e nessun tentativo va tralasciato. A cominciare dal dialogo strettamente personale in cui si cerca di convincere il fratello e di farlo ragionare, "ammonendolo fra te e lui solo". Si svolge, così, in suo favore il servizio della "sentinella" che lo mette in guardia dal pericolo che lo minaccia (cf Ez 33,7-9). È una "correzione", motivata soltanto dall'amore e fatta con amore umile e discreto, che potrà avere un risultato positivo: «se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello», lo avrai ricuperato alla famiglia che aveva lasciato o stava per lasciare, e lo avrai legato a te con un vincolo nuovo e profondo.
Se invece «non ascolterà», se la tua iniziativa personale fallisce, l'interessamento per lui ti porterà a coinvolgere altre persone e cercare insieme di persuaderlo. «Se poi non ascolterà, dillo alla comunità»; non nel senso che il fratello colpevole viene denunciato pubblicamente alla comunità perché essa lo estrometta, quanto piuttosto perché l'intera comunità, in una "congiura" d'amore, faccia pressione su di lui.
Se poi «non ascolterà neanche la comunità», se non accetterà la parola chiarificatrice e vincolante della comunità, guidata dai suoi responsabili, allora «sia per te come il pagano e il pubblicano»: lo considererai fuori della comunità perché ha deciso lui di esserci, custodendo però nel tuo cuore il desiderio e la speranza che vi possa rientrare.
In ogni modo, tutto ciò che la comunità cristiana, guidata dai suoi capi, compie a questo riguardo, viene approvato "in cielo", coinvolge l'intervento di Dio stesso. Insomma, la qualità di vita di una comunità cristiana, e l'efficacia della sua testimonianza, dipendono dalla qualità dei rapporti fraterni tra i suoi membri e dall'attenzione reciproca; perché la vera fraternità non tollera che si lasci andare il fratello per la sua strada, verso la rovina, ma porta a fare ogni sforzo per ricondurlo sulla retta via.
Ma l'interessamento al fratello si esprime anche nella preghiera per lui, soprattutto nella preghiera comune: «In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d'accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà». La preghiera è infallibilmente esaudita, non in base al numero delle persone che pregano. Non è la pluralità delle voci che assicura l'efficacia della preghiera, ma l'«accordo» delle voci, che suppone ed esprime l'unione dei cuori. Si tratta di essere profondamente armonizzati e uniti nella carità. Carità, amore scambievole, che è un «debito» da pagare lietamente e inesauribilmente (cf Rm 13,8-10). La preghiera che nasce da questo "accordo" ottiene! Perché quando c'è tale unità, tale "sinfonia", Gesù stesso è presente tra i fedeli, pregando con loro. E Lui non può non essere ascoltato dal Padre.
In effetti, Gesù aggiunge: «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».
«Riuniti nel suo nome», che significa non solo radunati materialmente insieme per invocarlo, ma che li unisce tra loro la medesima fede in Lui, l'impegno di attuare la sua volontà che è in definitiva l'amarci scambievolmente come Lui ci ha amati. Perché essere "riuniti nel suo nome", richiama quell'accordarsi tra di loro.
Queste parole di Gesù indicano, dunque, la condizione che rende possibile la sua presenza tra i suoi: l'amore reciproco, la disposizione a dare la vita l'un per l'altro "genera" la presenza di Cristo in mezzo a loro. D'altra parte, però, l'affermazione di Gesù dice che l'amore, l'unità nel suo nome, che i discepoli realizzano, è frutto della sua presenza, è dono suo.
La presenza di Cristo tra i suoi non è una presenza statica e inerte, ma una presenza dinamica e di una efficacia irresistibile. Una presenza che genera una festa continua, una festa contagiosa. Una presenza che dona luce, gioia permanente. È una presenza che fa Chiesa. "Dove due o tre sono uniti nel nome di Gesù, lì è la Chiesa" dice san Bonaventura. E Origene: "Quando due o tre sono uniti nella fede nel suo nome, Gesù viene in mezzo a loro, sedotto e attratto dal loro accordo".



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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso (Mt 16,24)
(vai al testo) - (pdf, formato A5/A4c)

Commenti alla Parola:
  di Gianni Cavagnoli (VP 2014)
  di Marinella Perroni (VP 2011)
  di Enzo Bianchi