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venerdì 29 aprile 2011

Adeguare il servizio ai tempi


Ho riportato nel mio sito di testi e documenti la testimonianza del diacono Roberto Bernasconi, di Como e direttore della Caritas diocesana, apparsa sul n° 163 della rivista Il diaconato in Italia, dal titolo Adeguare il servizio ai tempi.
Si tratta appunto dell'esercizio di una diaconia che è attenta al tempo presente ed all'ambiente dove viene esercitata.
Ne riporto alcuni passaggi.

«La giornata di un buon diacono non è fatta solo di un serio cammino di studio, spirituale e di preghiera, che pure è indispensabile, non è nemmeno una riscoperta del ministero legata a un percorso rivendicativo, che spesso ci vede impegnati all'interno delle nostre comunità a trovare quella visibilità che ci permetta di far capire il valore del nostro ministero per il servizio a tutta la comunità. Permettetemi questa sottolineatura: tante volte questa nostra rivendicazione ci allontana, più che avvicinarci, dalle nostre comunità, perché in questo nostro voler distinguerci nel ruolo che ci compete rischiamo di creare ulteriori steccati piuttosto che abbatterli, rischiamo di diventare non uomini di servizio, ma uomini da dover servire».

«La riscoperta del mio ministero diaconale la sto realizzando soprattutto attraverso la vita vissuta, che mi ha messo in condizione di stare in stretto contatto, quindi di condividere, di far mia, la vita di tanti fratelli che hanno una esistenza travagliata che è difficile da condividere, perché faticosa, perché complessa, problematica, perché fatta di tante cadute, perché ci fa avvicinare persone di cultura o di religione diversa, ma bisognose di essere capite, ascoltate. Sento il bisogno di accogliere e di condividere queste esistenze, perché sono la vita di uomini e donne che stanno inserite nel grande progetto di Dio sull'umanità. Dio si manifesta attraverso la vita di tutti gli uomini e soprattutto di chi è ultimo, di chi è dimenticato, di chi è emarginato…».

«Il rischio concreto che le nostre parrocchie vivono nel nostro tempo è quello di perdere il contatto con la realtà, con la quotidianità, con l'uomo comune a favore di una chiusura in presunte certezze che svuotano di senso tutto quello che la comunità a livello liturgico, di catechesi, ma anche di servizio caritativo riesce ad esprimere, perché fondamentalmente non sono rivolte all'uomo. Le nostre comunità diventano così poco significative, poco incisive sui problemi reali vissuti dalla gente, si limitano spesso a creare delle strutture di aiuto, di distribuzione di viveri o altri generi, ma quasi mai si sentono impegnate in un cammino di approfondimento, di conoscenza delle povertà…».

«Le nostre parrocchie devono diventare luoghi accoglienti in cui l'attenzione massima deve essere data innanzitutto alla persona, qualunque sia la sua provenienza, il suo ceto. Attraverso il dialogo sincero che nasce da questa accoglienza le nostre comunità devono farsi carico dei problemi, delle aspettative, devono diventarne il portavoce, diventare luoghi dove la vita con i suoi problemi reali abbia la possibilità di confrontarsi con la Parola, con la dottrina sociale della Chiesa e il frutto di questo confronto siano proposte concrete che portino ad una civile convivenza».

«Il mio servizio alla carità mi ha fatto capire che uno dei compiti del diacono che è ministro della Parola e della Carità, è anche quello di essere ministro della soglia, ministro della accoglienza. Deve il diacono saper vivere questo suo ministero della soglia a nome e per conto della comunità, ponendosi al di fuori, sulla porta, aperto al mondo, ma con un occhio rivolto alla comunità che deve saper stimolare, che deve saper guidare e deve saper rappresentare in questa accoglienza e con un occhio al mondo dove gli uomini e le donne vivono e faticano e spesse volte, quando sono in difficoltà, si nascondono per paura, per pudore».

«Noi, accettando il nostro ministero diaconale, ci siamo accollati una grossa responsabilità di cui dovremmo rendere conto a tutta la comunità. Il ruolo che noi possiamo svolgere e che ci è dato anche dal nostro stato di vita, che ci porta ad essere nel mondo, mentre contemporaneamente siamo ministri della Chiesa, è importante per questo nuovo rapporto tra le varie culture. Questo ruolo può aiutare la nostra Chiesa a scoprirsi Chiesa ministeriale, a diventare Chiesa che si rende consapevole di essere nel mondo non per dominarlo ma per mettersi a servizio di tutti gli uomini».

martedì 26 aprile 2011

Chiara, mia moglie


In occasione del 20° anniversario della mia ordinazione diaconale (di cui ho scritto qualcosa nei post precedenti) ho chiesto a mia moglie Chiara di esprimere cos'è per lei questa nostra "avventura".

Tornare con la mente a quella sera del 1991 non è uno sforzo della memoria, ma la gioia di rivedere il fiorire di un disegno di Dio per la nostra realtà familiare.
Nel momento dell'imposizioni delle mani del vescovo su Luigi la mia preghiera che saliva al Padre è stata: "Tutto quello che non capisco ancora, tutto quello che mi rende incapace di fare quello che dovrò fare, Tu lo sai, e solo Tu indirizzami in modo che io possa riuscire a fare contento Te e Luigi ".

Ritornare con la mente a quei momenti e alla strada di vita fatta sino ad ora, mi fa vedere il mio e nostro disegno nel pensiero di Dio da sempre. Ancora diciottenne, quando le amicizie che avevo, belle, hanno cominciato a dissolversi per il naturale evolversi del vivere umano, mi sono ritrovata a chiedere a Dio cosa dovevo fare della mia vita: "Sento la vocazione alla famiglia", Gli ho detto. "Ma solo se mi dai la possibilità di avere una BELLA famiglia, perché Tu sai cosa vuol dire Bella mentre io no; ma se il Tuo desiderio su di me è un altro, fammi avere una fede così solida da non desiderare niente di diverso".
Eccomi qui a ringraziare Dio di essere sempre presente nella mia vita. Certamente fatta di alti e bassi; di slanci e di battute d'arresto, ma pur sempre riconoscente per il Suo amore per me. Nella richiesta di avere una bella famiglia non era contemplata la realtà diaconale, perché non sapevo ancora cosa fosse; ma Dio sì!
La moglie del diacono. In questi anni ho sentito varie versioni riguardo all'identificarne la figura. C'è chi la pensa un limite alla libertà d'azione del marito, c'è chi la paragona alla moglie di un medico o di un militare, perché uomini sempre pronti in prima linea e sempre fuori casa; c'è chi la vorrebbe diaconessa così da togliere, una volta per tutte, il problema.
Mi guardo e vedo una donna che, partecipando intimamente alla chiamata di Dio del marito, decide LIBERAMENTE e TOTALITARIAMENTE, con il suo Sì a Dio, di seguire la volontà di Dio sul marito, sapendo di "perderlo", nel senso umano del termine. Iniziano ad esserci delle priorità nelle decisioni e bisogna essere pronte a posporre, ma non per partito preso.
È una donna che decide di anteporre le realtà del marito ai propri desideri sicura di ricevere un di più, perché è un ridonare a Dio il dono ricevuto, ma con l'aggiunta di altre vite: la mia e quella dei nostri figli. Però c'è una cosa che sento dover essere sempre presente nella mia vita: la realtà che Dio mi ha offerto come dono va costantemente alimentata da un rapporto personale, solido, d'anima, tra moglie e marito che non dovrebbe mai assopirsi, come invece talvolta accade, pena lo sterile attivismo del marito e l'insoddisfazione e incomprensione sempre più profonda della moglie. Ho sempre sentito di non dover accettare passivamente una decisione, anche santa, di mio marito, proprio per il fatto che con il matrimonio la realtà è quella di due che diventano uno e in questa unità prende forma e si concretizza la realtà del diaconato.
Alle volte mi sembra un controsenso che venga chiesto il consenso della moglie per il raggiungimento dell'ordinazione al diaconato del marito e una volta ricevuto il sacramento la figura della moglie sia esteriormente quasi sopportata, come se quell'accettazione fosse una semplice formalità: se così fosse, sarebbe svuotata del suo unico e vero significato.
Perciò la luce non va nascosta, va alimentata, va fortificata soprattutto nell'essere.
Mi viene alla mente la figura di Maria. Come deve essersi sentita giudicata, nella società di allora – ma per certi versi non molto distante dall'odierna –, nel momento in qui non era più possibile nascondere la gravidanza: sguardi indiscreti, bisbigli, atteggiamenti scortesi. Ma la vedo nel suo incedere fiero, cosciente del suo sì a Dio, mai distolta dal chiasso circostante, il suo seguire passo passo Gesù fino a ritrovarsi con Lui sotto la croce e rivederlo poi risorto. Ecco a chi deve guardare la moglie del diacono: a Maria. Alla sua forza, ma anche all'accettazione di qualcosa che non c'era nei suoi pensieri: "com'è possibile? Non conosco uomo" o "donna, ecco tuo figlio" o "Figlio, perché ci hai fatto questo?". All'austerità di Maria, ma anche alla sua previdenza "non hanno più vino", alla sua fedeltà a quel sì iniziale!
Chiara Vidoni


lunedì 25 aprile 2011

È Pasqua!


È Pasqua! Dopo i giorni della Passione la luce del Risorto illumina sì la nostra vita, ma è una luce che dà volto e senso anche al buio dei giorni del dolore e li fa rivivere con la sua stessa intensità. Si fa esperienza che il prima e il dopo sono compresi nella stessa Persona e nello stesso Evento del Figlio di Dio, nel quale ha significato il tutto di noi: ogni azione personale e familiare, come ogni azione di ministero, incastonati nell'unica diaconia di Cristo.
Così ho vissuto questi giorni santi: la Messa Crismale nella gratitudine e nel ricordo del ventesimo della mia ordinazione diaconale ed i giorni del Triduo Santo.
Venerdì mattina, nel dormiveglia che precede il risveglio, sto sognando un inizio normale di giornata: mi alzo, è buio nella stanza, non accendo la luce per non svegliare mia moglie e mi avvio verso la cucina a preparare la colazione; il percorso ormai lo conosco. Entro in cucina e accendo come sempre la luce. Ma non vedo niente: è buio pesto… Riprovo con l'interruttore e mi sembra che ci sia la corrente, ma resto al buio. È un attimo… poi mi dico: Non vedo niente, sono diventato cieco!
È come sprofondare in un baratro e tutta la mia vita azzerata di colpo… Sono perduto, è finita… e l'angoscia mi prende la gola…
È stato un attimo… Poi di colpo mi rendo conto che si può vivere anche se si è ciechi e mi riaffiora il ricordo d'aver fatto, da giovane, il mio servizio militare come accompagnatore di un grande invalido, un cieco di guerra, la cui vita mi sembrava normale, era anche sposato…
Mentre riprendo la calma, mi sveglio…
Prendo coscienza e mi dico: Oggi è Venerdì Santo! Oggi è il giorno in cui "si fece buio su tutta la terra", riflesso di quel buio che ha invaso l'anima di Gesù.
Con quel pensiero inizio la giornata e cerco di viverla con quel dono ricevuto al mattino e che mi accompagnerà fino alla Risurrezione.
È la luce della Vita che dà senso a tutto quel buio: la Vita che è amore, relazione. E la vita è normale, come in quella esperienza giovanile.
Prendo coscienza che l'angoscia onirica della mia cecità si è tramutata in pace interiore nelle possibilità di una solitudine, che è vinta in una vita in cui sono i rapporti d'amore, di condivisione, a dare senso e speranza.
Vivo così questa Pasqua, nella certezza che "passiamo dalla morte alla vita, se amiamo i fratelli".


mercoledì 20 aprile 2011

Il diacono e il suo vescovo


Questo di oggi, 20 aprile, è stato un giorno particolare per la ricorrenza del ventesimo anniversario della mia ordinazione diaconale (nelle foto due momenti).
Chiudo la giornata con nel cuore una gratitudine immensa per il dono ricevuto, che supera e sigilla nel suo profondo, trasformandoli, ogni mia inadeguatezza ed ogni mio limite. Puro amore di Dio!
Racconto un episodio, di questa sera, alla Messa Crismale in Cattedrale. Coincidenza singolare anche per l'ora in cui i sacerdoti rinnovavano le loro promesse sacerdotali. Alla stessa ora di 20 anni fa pronunciavo anch'io le mie promesse diaconali. Pur essendo "ordini" diversi, il significato personale mi è risultato lo stesso, perché vale anche per il diacono la promessa di «unirsi intimamente al Signore Gesù, rinunciando a se stessi e confermando i sacri impegni che, spinti dall'amore di Cristo, abbiamo assunto liberamente verso la sua Chiesa»; come pure di «adempiere il ministero della parola di salvezza sull'esempio di Cristo, lasciandoci guidare non da interessi umani, ma dall'amore per i fratelli».
Mi sono sembrate purificate da ogni esteriorità, queste parole del vescovo, anche per un episodio particolare successomi proprio questa sera.
Per un disguido di comunicazione sono arrivato in ritardo e di conseguenza non in tempo per indossare anche la dalmatica assieme agli altri diaconi presenti. Mi sono così inserito nella processione, che dalla chiesa succursale procedeva verso la cattedrale, con il camice e la sola stola.
Mi sarebbe piaciuto, anche per la particolarità della giornata, fare tutto a puntino… È l'occasione per interiorizzare ogni atteggiamento e cogliere l'essenziale.Guardo il vescovo: mi sembra bello vedere sotto la pianeta anche la dalmatica, che ogni vescovo indossa, segno della pienezza del sacramento dell'ordine. Una gioia interiore mi riempie.
Vedo, in quella dalmatica indossata dal vescovo, la mia: la sensazione spirituale di dovermi "perdere" nel vescovo, di cogliere nel profondo che senza il suo ministero non avrebbe senso il mio, ché diversamente sarebbe un semplice sterile darmi da fare. E ringrazio Dio per quanto mi è capitato.
Ho riscoperto con sapore nuovo le parole della Didascalia degli Apostoli: «Il diacono sia l'orecchio del Vescovo, la sua bocca, il suo cuore e la sua anima, perché voi (Vescovo e diacono) siete due in una sola volontà e nella vostra unanimità la Chiesa troverà la pace» (XI 44).

martedì 19 aprile 2011

Modello di ogni diaconia


In questi giorni della Settimana Santa, appena iniziata, il pensiero e il cuore si concentrano sulla Persona di Colui che è il Modello di ogni nostra diaconia: Gesù, "diacono" del Padre, il Servo di Jahve di cui parla Isaia ed è proposto dalla liturgia di questi giorni.
Questi momenti prendono un significato ancor più particolare per la coincidenza del ventesimo della mia ordinazione diaconale, che ricorre domani 20 aprile (Alla messa crismale di domani sera in cattedrale rinnoverò, assieme a tutti i sacerdoti, le promesse fatte al mio vescovo nel giorno della mia ordinazione, praticamente alla stesa ora).

Gesù è il nostro divino Modello, a Lui vorrei conformare tutta la mia vita. Si legge nella Ratio per la formazione dei diaconi, al n. 4: «Il modello per eccellenza è Cristo servo, vissuto totalmente al servizio di Dio, per il bene degli uomini… Ha qualificato espressamente la sua azione come diaconia ed ha raccomandato ai suoi discepoli di fare altrettanto».

Di Lui parla Isaia:
«Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio… Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità… Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano… perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre» (Cf Is 42,1ss).
«Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome… mi ha nascosto all'ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra» (Cf Is 49,1).
«Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l'orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro…» (Cf Is 50,4).

sabato 16 aprile 2011

Restiamo umani!


Che stridore con quello che stiamo vivendo in quest'ultimo periodo nella nostra povera Italia.
I cosiddetti potenti stanno dando un'immagine ben grama d'impegno nella risoluzione dei problemi che attanagliano la nostra società.
Cosa manca alla risoluzione di essi? Che esempio di grandezza umana in un ragazzo di 36 anni! La grandezza sta proprio nel fatto di AMARE l'altro e le sue necessità, cosa che i "saggi" adulti stanno perdendo di vista.

Restiamo umani!
Ecco l'invito di Vittorio Arrigoni che è stato disposto a mettere a repentaglio la sua vita per un ideale: l'amore per la terra di Gaza, carica di dolore, e per i suoi abitanti palestinesi.

Restiamo umani!
Stiamo perdendo di vista il dono più bello e più grande che abbiamo ricevuto: l'appartenenza alla "famiglia umana" che ci accomuna; un dono così grande che Dio si è fatto uomo per farci capire la preziosità che abbiamo tra le nostre mani.

Restiamo umani!
Quanto poco basterebbe: Amare la propria personale umanità - con i chiaro-scuri, con le cadute e gli slanci - e in essa trovare l'anello di congiunzione con quella del fratello, della sua umanità in un mondo, che, come stiamo vedendo in quest'ultimo periodo nel nord Africa e non solo, è sempre più a portata di mano grazie ai "social network".

Restiamo umani!
Proprio nella nostra umanità c'è tutta la potenza del rapporto con l'altro, chiunque esso sia. Il gioire, il patire, il desiderio d'amare e di essere amati è di ogni uomo. Solo se ci accorgiamo dell'altro – un altro me – e lo guardiamo con gli occhi della nostra umanità si spalancano strade impensate, si supera la barriera dell'essere straniero, i problemi altrui diventerebbero i nostri e insieme si potrebbero risolvere, l'amore diventerebbe visibile e tangibile tanto da far dire: "Guarda come si amano…".

Grazie Vittorio per la tua breve, ma densa, presenza d'amore per chi ti ha conosciuto.

Chiara Vidoni

martedì 12 aprile 2011

La sfida di oggi




Continuando nella trascrizione degli articoli apparsi sul n° 163 della rivista Il diaconato in Italia dal titolo Servire nel sociale e nel politico: una diaconia per l'uomo, riporto alcuni stralci dell'intervento di p. Bartolomeo Sorge all'inaugurazione del laboratorio di politica, avvenuta a Catania nel febbraio 2009.
Il titolo dell'intervento: Laicità del servizio in politica.

«Qual è la sfida oggi dei laici cristiani che si impegnano in politica? Superare la tentazione del confessionalismo, prospettando una lettura della realtà sociale, che pur essendo ispirata a valori etico-religiosi, sia sempre rigorosamente laica, quindi condivisibile da tutti, credenti e non credenti, o appartenenti a ideologie diverse. Bisogna annunziare con la vita i valori cosiddetti non negoziabili, assoluti, e al tempo stesso, ricercare con tutti gli uomini di buona volontà il bene comune possibile, il quale passa necessariamente attraverso le regole democratiche del consenso, le regole psicologiche della gradualità. Quindi sul piano politico l'ispirazione cristiana va mediata nel confronto, nel dibattito, nella gradualità e nelle incertezze della vita democratica.
«Questo è il tempo di uscire per le strade, andare nei luoghi dove l'uomo soffre, dove l'uomo si interroga, dove nasce la nuova società, dove si elaborano le idee.
«Come è possibile essere fedeli agli ideali e riuscire a trovare un incontro con i rappresentanti di altre culture? Io penso che la sfida per i cristiani sia questa. Primo: dobbiamo testimoniare, annunziare a voce e con la vita i valori cosiddetti non negoziabili, assoluti, nei quali crediamo. Noi non possiamo fare a meno di dare la nostra vita per i valori fondamentali della vita sociale, giusta, fraterna. Al tempo stesso, dobbiamo ricercare con tutti gli uomini di buona volontà il bene comune possibile, il quale passa necessariamente attraverso le regole democratiche del consenso, le regole psicologiche della gradualità. Quindi sul piano politico l'ispirazione cristiana va mediata nel confronto, nel dibattito, nella gradualità e nelle incertezze della vita democratica.
«Non si tratta di affidare al criterio della maggioranza la verifica della verità di un valore, bensì di assumersi autonomamente una responsabilità nei confronti della crescita del costume civile di tutti. È il compito dell'etica politica.
«Non si può fare politica come si fa una professione qualsiasi. La pura identificazione della politica come una professione, è la morte della politica; perché ha bisogno di una forza etica che si basa sulla testimonianza della vita, sul coraggio dell'annuncio, e sulla professionalità che vi mette in grado di tradurre in termini laici, ciò che la luce del Vangelo e del Magistero della Chiesa, vi danno.
«Di fronte al pensiero unico neo-liberista dominante, che riduce la persona a individuo, la solidarietà a mero legalismo formale, e mortifica la partecipazione responsabile dei corpi intermedi, occorre porre a fondamento di una democrazia più matura, partecipativa, una nuova cultura politica, fondata su una concezione integrale di persona, su una vera solidarietà fraterna e su una laicità positiva.
«Ora è urgente, nel ventunesimo secolo, in questa società globalizzata, pluriculturale e plurietnica, fare unità nel rispetto delle diversità.
«L'esperienza dimostra che l'incontro politico tra credenti e non credenti, tra appartenenti a diverse ideologie, è possibile. Anche se non sempre coincide l'interpretazione dei medesimi valori. Però una cosa è certa: solo il riferimento ad una laicità positiva, consente l'incontro tra diversi, nel rispetto della identità di ciascuno.
«Non è tutto destinato alla crisi e alla fine: sta nascendo un mondo nuovo, e ci sono tutti i sintomi ed i segni dei tempi che annunziano di avere fiducia».

È su questo nuovo che si innesta la vitale testimonianza di una vera diaconia.


lunedì 11 aprile 2011

In attesa della vita piena


Ho davanti agli occhi la commovente scena della risurrezione di Lazzaro, di cui parla il vangelo di ieri, V domenica di Quaresima, ed un senso di gratitudine mi riempie il cuore per il dono inestimabile della Vita, quella che dà senso ad ogni vita. È Gesù stesso che me la dona, la sua Vita! Cioè Lui stesso! … nel "sonno" di questa mia esistenza terrena.
Lazzaro vieni fuori! E quel grido chiama anche me ad uscire dal mio sepolcro…
Occorre credere che Lui può farlo, ora, adesso!
Sì, Gesù, tu mi comandi di uscire dalla tomba del mio egoismo, della mia inerte solitudine, dalla mia incapacità di amare, dal buio del mio peccato…
Sì, credo! …al di là di ogni apparenza, oltre i "quattro giorni" di sepoltura, al di là dei miei limiti, oltre il "cattivo odore" che emana dall'interno del sepolcro dei miei peccati…
Sì, tu sei lì, Gesù, diritto davanti a quella pietra, che mi aspetti…
Di fronte al pianto delle sorelle e degli amici, anche tu sei scoppiato in pianto…
Soffri con noi, per noi, come per un amico carissimo, come per un fratello…
È un dolore che nasce dall'amore di una condivisione piena.
Sei il divino modello per la nostra vita, personale e comunitaria…
È in questa condivisione, in questa reciprocità d'amore, diaconia perfetta, la sorgente della Vita… per noi, per tutti. Così la Vita continuamente nasce e rinasce, in noi e negli altri assieme a noi… preludio alla vita piena che ci attende nel seno del Padre.

martedì 5 aprile 2011

Senza differenze


Abbiamo assistito, e stiamo assistendo, in questi giorni alle scene, spesso piene di tensione, di coloro che sono fuggiti dalla loro terra e sono sbarcati a Lampedusa.
Una di queste mi ha particolarmente impressionato: il rifiuto di molti, soprattutto giovani, del trattamento riservato e persino del cibo che è stato loro offerto.
Ho sentito diversi commenti, realistici se vogliamo, circa queste "pretese" che ti lasciano sconcertato… "Con tutto quello che facciamo per loro…".
Ma perché si comportano così? Ognuno dà la sua risposta, sicuramente valida.
Anch'io mi sono chiesto il perché di un simile comportamento… Ma, pur comprendendo le varie motivazioni, non ho voluto lasciarmi prendere da una reazione istintiva o di giudizio sommario ed immediato. Mi è sembrato di cogliere in questi "disperati", che hanno perso tutto e rischiato la vita per un futuro diverso e forse migliore, la rabbia istintiva e atavica di chi si sente derubato e defraudato… da chi vive meglio di loro.
E vogliono fare "giustizia"… livellando tutto e tutti… Siamo tutti essere umani e la terra è di tutti… le ricchezze sono di tutti… il cibo deve essere per tutti… E non guardano in faccia a nessuno, nemmeno ai loro "soccorritori"… Che strano è l'uomo!
Ma poi è proprio vero?
Quanto sono vere le parole di sant'Agostino: «Il superfluo dei ricchi è necessario ai poveri. Quando si posseggono cose superflue si posseggono cose che appartengono agli altri» (En. in ps. 147,12).
Una lezione per una diaconia solidale e di fraternità, in un mondo chiuso in se stesso.


sabato 2 aprile 2011

Chiamato alla santità


Sesto anniversario della morte-vita di Giovanni Paolo II, alla vigilia della sua beatificazione.
Il cuore ed i pensieri inondano l'anima, rendendomi presente ed incessante il suo invito, autentico e deciso, alla santità.
Leggendo il suo libro Dono e Mistero, scritto in occasione del 50° del suo sacerdozio, sento rivolte personalmente a me queste sue parole:

«A costante contatto con la santità di Dio, il sacerdote deve lui stesso diventare santo. È il medesimo suo ministero ad impegnarlo in una scelta di vita ispirata al radicalismo evangelico. Questo spiega la specifica necessità, in lui, dello spirito dei consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza. (…) Da qui il particolare bisogno di preghiera nella sua vita: la preghiera sorge dalla santità di Dio e nello stesso tempo è la risposta a questa santità. (…)
Se il Concilio Vaticano II parla della universale vocazione alla santità, nel caso del sacerdote bisogna parlare di una speciale vocazione alla santità. Cristo ha bisogno di sacerdoti santi! Il mondo di oggi reclama sacerdoti santi! Soltanto un sacerdote santo può diventare, in un mondo sempre più secolarizzato, un testimone trasparente di Cristo e del suo Vangelo. Soltanto così il sacerdote può diventare guida degli uomini e maestro di santità. Gli uomini, soprattutto i giovani, aspettano tale guida. Il sacerdote può essere guida e maestro nella misura in cui diventa un autentico testimone!».
(Giovanni Paolo II, Dono e Mistero, Chiamato alla santità, p. 98).

Tutto questo vale anche per me, chiamato a servire quella porzione di umanità che mi è affidata, nella santità di una diaconia che vuole essere autentica testimonianza dell'amore di Dio.